Non lasciatevi ingannare dall’immagine di quel paffutello signore rappresentato in copertina, seduto sul bordo del letto a guardare fuori da una finestra che sembra appartenere ad una cllnica per malati di mente – a volte persino il lavoro di una solitamente brava Nancy Given (designer) può risultare di dubbio gusto – il Mister in questione è James King, un uomo che, pare, sia in possesso di tutte le facoltà mentali sulle quali si conta normalmente.
Anzi, al signore va attribuita una dote non comune, e qui finalmente parliamo di musica, quale la capacità di cantare il bluegrass in maniera tale da fartelo amare profondamente, perché te lo fa sentire, portandoti per incantesimo nei luoghi che l’hanno creato, facendoti assaporare il profumo della sua terra e conoscere il carattere della sua gente.
E’ il suo terzo lavoro per la Rounder Records (qualche anno fa ne è uscito uno per la minuscola Webco Records), inoltre ha collaborato, a metà anni ’80, con Ralph Stanley e recentemente con il super-gruppo Longview. Questo però lo attendavamo con ansia poiché i precedenti lavori non lo vedevano dirigere la propria band, ma quella dei Johnson Mountain Boys al completo con l’aggiunta del ‘monroeniano’ Mike Compton al mandolino.
Eccoci infine appagati, dopo quasi quattro anni resi ancora più lunghi dalle voci di amici che lo avevano ascoltato dal vivo e del quale dicevano grandi cose.
James King è il chitarrista e unica voce lead del gruppo, non strappa assoli, ma offre una ritmica solida con uno strumming ben pronunciato.
Kevin Prater, che arriva da una band del Kentucky denominata Redwing, suona il mandolino e canta tenore; unico harmony vocalist della band, conduce il suo ruolo con dedizione, evitando di volersi fare ammirare in maniera ostentata come spesso accade al tenor, ma piuttosto cercando il massimo del connubio con la voce del leader. Al banjo Adam Poindexter, dal North Carolina, che offre un ottimo e convincente Scruggs-style, ricco di un timbro profondo come piace solitamente ai fan di questo strumento.
Al contrabbasso, suonato solidamente e con gran senso del ritmo, Jason Moore, un giovane proveniente dalla stessa cittadina dell’amico Poindexter.
Al fìddle un veterano, il violinista della seconda generazione che meglio ha saputo tirar fuori l’anima da questo strumento, il grande Bobby Hicks, che grande ancora una volta si dimostra.
Il simpatico Owen Saunders, che abbiamo avuto un paio di anni fa ospite a Milano nella band di Doyle Lawson, è entrato come fìddler nel gruppo proprio nel periodo delle session, ed è riuscito così ad inserirsi in due brani.
Nel nostro Paese la ‘critica’ tratta il genere bluegrass con sufficienza, distacco e spesso ironia, al pari di una qualsiasi attrazione turistica di una zona degli States che a pochi importa di conoscere. Lasciamo stare il fiume di errori che chi lo segue deve amaramente sorbirsi, è piuttosto l’approccio e l’atteggiamento di ‘superiorità’ causato dalla evidente ignoranza in materia ad infastidire.
La musica bluegrass in Italia, nonostante sia ascoltata da oltre venticinque anni – i maligni diranno da un ‘insignificante’ numero di persone, ma questo non vuoi dire assolutamente niente – deve ancora incredibilmente conquistarsi stima e rispetto, e questi non verranno trasmessi dai giornalisti (ora possiamo davvero smettere di sperarlo) ma più probabilmente grazie al diretto interessamento degli ascoltatori che vogliono vedere oltre, avvalendosi delle produzioni più rappresentative che giungono quaggiù e sulle quali è più facile metter mano.
Bed To My Window è una di queste. E’ un disco che trasuda passione, un tuffo in una tradizione che forse non ci appartiene, ma che il titolare dell’opera riesce a farci sentire anche nostra. Uno dei dischi, per ripetermi, che possono contribuire nel rendere giustizia ad un genere musicale maltrattato e conquistarsi quel rispetto che davvero merita.
Le canzoni selezionate, nonostante abbiano fatto parte del repertorio di affermati artisti se non addirittura star della musica country anni ’40 e ’50 (Hank Williams, Ernest Tubb, Johnnie & Jack, Stonewall Jackson), dicono ben poco a chi non segue il genere con passione e dedizione. Ancora meno le altre, una presa dai vecchi Country Gentlemen, uscita dalla penna di un giovane, oggi compianto John Duffey; un’altra di Charlie Moore, un nome tuttora molto sfruttato nell’ambito di questo genere; un’altra ancora da un personaggio noto in campo folk venticinque anni fa ma attualmente passato nel dimenticatoio, Mimi Farina; e per chiudere, anche un pezzo dalla Nashville di questi anni ’90.
La migliore canzone, tuttavia, a mio modesto e personalissimo avviso, è la title-track, opera di uno sconosciuto (tal Crosby), un pezzo lento, amaro e passionale, una grande interpretazione dalla voce lonesome, grezza e naturale di James King, il quale si discosta, per la fortuna di chi, come noi, ama le cose più vere e genuine, dall’attuale tendenza che vede cantanti bluegrass e country eseguire i propri brani con voce impostata, educata e pulitina dando come risultato una musica confezionata come delle buone, dolcissime caramelline.
Ma andiamo con ordine, e vediamo nel dettaglio il contenuto di questo prezioso dischetto.
Apre Wear A Red Rose del già citato John Duffey, e subito James ci obbliga a lasciar perdere qualunque cosa stessimo facendo nel frattempo: ci si credeva di potergli dare una prima ascoltata in maniera superficiale, così giusto per ambientarsi… e invece l’attenzione è immediatamente catalizzata dall’energia (montagne di kilowatt!) profusa già con le prime note grintosamente suonate dal banjo, accompagnate da una ritmica galoppante, fino all’ingresso di quella voce che non ama risparmiarsi, ne in volume tantomeno in heart and soul.
Adam Poindexter, il banjoman del gruppo, fa subito un gran figurone.
Con Big House On The Corner, una country song di Stonewall Jackson dei primi anni ’60, ci si rilassa un poco, almeno nel ritmo, perché la tensione rimane alta: una caratteristica costante nella musica di James King.
Per non parlare, a tal proposito, della magica Bed To My Window, sulla quale credo di essermi già espresso chiaramente.
Tall Pine, registrata da Bill Monroe nel ’69, è la tipica canzone sul tema della nostalgia da parte di chi ha dovuto lasciare il proprio verde Sud per dirigersi verso le zone industriali dell’Ohio o dell’Illinois in cerca di lavoro.
Sweeter Than The Flowers, un lento tre-quarti decisamente lonesome che sembra essere stato partorito da chissà quale oscuro artista del Sud-Est, esce invece dal repertorio fine anni ’40 del grande pianista Moon Mullican.
Anche I Don’t Do Floors Anymore ha il feeling delle vecchie canzoni country anni ’40 ma, al contrario, si tratta di un brano relativamente giovane, già eseguito dalla brava Jann Browne, una cantante che alcuni anni fa venne lanciata in alto dall’industria di Nashville, ma che sfortunatamente oggi constatiamo essere fuori dal grosso giro.
Tempo scaduto, e spazio pure: mi trovo soltanto a metà del disco nonostante il fiume d’inchiostro impiegato. Spero di avere reso l’idea. E che quest idea magari vi piaccia anche. Per quanto mi riguarda, io torno per l’ennesima volta a premere ‘play’. Fatemi sapere.
Rounder O425 (Bluegrass Tradizionale, 1998)
Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 46, 1999
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