La zona grigia: è il luogo nel quale per anni è rimasto confinato Grant-Lee Phillips, autore e cantante di valore che non è mai riuscito a ottenere il successo che merita, nemmeno con gli amatissimi (dalla critica) Grant Lee Buffalo. Lo abbiamo intervistato all’indomani della pubblicazione in Italia del secondo disco solista, Mobilize.
Il mio primo incontro con Grant-Lee Phillips risale alla fine del ’93. C’era da promuovere l’uscita europea del primo album dei Grant Lee Buffalo, Fuzzy. Era tempo di vacche grasse e le case discografiche investivano anche in prodotti di qualità e non solo di quantità… Così, uno sparuto manipolo di giornalisti (in realtà solo due) era a Parigi per incontrare la promettente band.
Quasi dieci anni dopo, con una band e quattro dischi alle spalle, più la nuova sorprendente prova solista, mi trovo davanti ad un quasi quarantenne simpatico e con i piedi per terra.
A Parigi non è che tu sprizzassi simpatia da tutti i pori…
Ho un vago ricordo di quella serata… tanto alcol… e poi per la prima volta a Parigi… pensavo di dominare il mondo…
Parliamo di Mobilize, il tuo nuovo disco. Nuovo si fa per dire, visto che negli Usa è uscito nell’agosto 2001…
Non è così male parlare a distanza di qualche mese dalla pubblicazione dell’album. Tante cose sono successe. Innanzitutto l’11 settembre. La vita è cambiata. Alcune canzoni hanno preso un significato nuovo dopo l’11. See America, il titolo che apre il disco, mi ha ricordato la mia prima visita a New York e penso sia perfetta per mostrare la perdita d’innocenza, mia personale e della nazione tutta. Arrivare la prima volta nella Grande Mela comporta uno choc culturale e dopo Nine Eleven (così gli americani definiscono l’11 settembre, ovviamente con il numero del mese prima del giorno, nda) non posso che ritrovarmi immerso in immagini di quella tragedia. Mobilize, mobilizzazione, è diventato un termine parecchio usato dopo 9-11…
Le canzoni sembrano offrire una sorta di visione del futuro. Soprattutto quando nascono in maniera inconscia. Premonizione?
Non mi spingo a dire ciò, ma non è la prima volta che mi capita di avere una sorta di precognizione. Ognuno di noi è più complesso e probabilmente più… capace di quello che lui stesso presume. Un artista deve lasciare scivolare all’esterno questa relazione con la parte più intima e magica. Devi lasciarti guidare dall’ispirazione perché questa t’indirizza sul binario giusto. Deve essere un dono di famiglia. Mia nonna ascoltava le proprie voci interiori e credeva molto nei significati dei sogni, lo stesso mia madre. Io credo che i nostri avi veglino su di noi.
Parli come un nativo americano…
C’è del sangue pellerossa nelle mie vene e forse le mie origini cherokee incoraggiano il mio desiderio di spiritualità. Essere americano vuol dire appartenere a culture differenti. In me ci sono tracce di Grecia, spruzzi di Olanda, un lembo di Francia, un punto d’Irlanda e chissà cos’altro. E mi sento italiano per procura, perché mi piace tutto quello che viene dal vostro paese.
Puoi dirci qualcosa circa la tua partecipazione al progetto 1 Giant Leap di Jamie Gatto e Duncan Bridgeman? Sbaglio o ci sei arrivato tramite Michael Stipe…?
È stato un immenso piacere essere coinvolto in questo progetto. Michael ha preso il telefono e mi ha chiesto se ero interessato a parlare con Jamie che stava preparando questa incredibile collaborazione… a banda larga. Era qualcosa che mi calzava alla perfezione: improvvisazione, velocità d’esecuzione e la registrazione da effettuare nella cucina di casa. Ed è proprio stato così. Jamie è arrivato con un CD con della musica in stato di composizione e una videocamera; ascoltando quello che aveva già pronto, ho buttato giù delle idee melodiche e dei testi e in 15 minuti eravamo pronti a catturare quelle idee che poi si sono concretate in Racing Away. Ho visto le immagini dalla videocamera e ho seguito il mio istinto.
Il mio pezzo fa da sfondo alle immagini di New York City prima del 9-11 e parla della velocità che impregna la nostra vita. Velocità pericolosa, che ci porta a viaggiare sempre più lontano e che, metaforicamente, impedisce di analizzare la realtà esterna e il nostro io più intimo. Sono davvero orgoglioso di aver preso parte al progetto e spero riceva i riconoscimenti che si merita. Ricorda Koyaanisqatsi, uscito ormai una ventina di anni fa, un’opera che mi ha sempre affascinato, il caos della vita sentito attraverso la musica di Philip Glass. Mi sembra che 1 Giant Leap proceda sullo stesso sentiero.
Ti va di parlare un po’ dei Grant Lee Buffalo? Ti sei lasciato in maniera amichevole con gli altri due?
Non c’è stato un vero litigio o uno strappo brutale; piuttosto un logorio che ha portato alla separazione. Era per me necessario lasciare la band per provare una reale carriera solista. Il rammarico, se di rammarico si può parlare, è non aver visto il completo successo della nostra band. Siamo rimasti in una sorta di ‘area grigia’. Non abbiamo fatto come i R.E.M., ad esempio, che dopo tanta gavetta hanno fatto il salto di qualità. A conti fatti, comunque, ho ottimi ricordi del tempo passato con Joey (Peters, nda) e Paul (Kimble, nda). Fotografie che pesano sulla mia veneranda età di 38 anni! Sto arrivando a 40… tu che ci sei arrivato prima dimmi un po’… c’è vita dall’altra parte? Scherzi a parte. Chissà se avrò una carriera lunga come quella di Willie Nelson o Bob Dylan… o Julio Iglesias? È una domanda intrigante… E poi vedi che porto una sciarpa al collo… questo è il primo segno di quello che sto diventando… un cantante d’opera!
Chi sono i tuoi eroi musicali?
Vuoi i nomi? Bah… sono tutti o su di età oppure hanno già “lasciato la casa”, come Elvis. Sono da sempre un grande fan. Quando ero un ragazzo Presley e poi i Beatles e Lennon in particolare. Poi ho scoperto David Bowie, Iggy Pop e tutti questi strani personaggi che vivevano da qualche parte al di là dell’Atlantico. Quindi i miei gusti musicali sono davvero variegati. Mi piacciono anche artisti degli anni Trenta o Quaranta, musicisti che ho scoperto poco alla volta. Mi piace farmi sorprendere e ricercare musica nuova che ascolto grazie alle radio indipendenti o ad Internet. La mia collezione di dischi fluttua da Bessie Smith a Patti Smith a Elliott Smith agli Smiths!
Trovo la tua musica molto ‘cinematografica’ e alcune tue canzoni sono finite in colonne sonore di film come Velvet Goldmine o la serie televisiva Friends. Hai mai pensato di scrivere un’intera colonna sonora?
A proposito della registrazione di In My Room, la cover dei Beach Boys usata per Friends, pensa che in quel periodo abitavo davvero in una casa appartenuta alla famiglia Wilson e abbiamo registrato proprio nella cantina di quella casa. Poi a un party abbiamo conosciuto Mr. Brian Wilson in persona, un vero gentiluomo, un uomo completamente devoto alla sua musica. Lo scorso anno un regista debuttante, David Goyer, mi ha chiesto di scrivere dei pezzi originali per la colonna sonora del film Zig Zag (in uscita negli Usa alla fine di aprile con Wesley Snipes, John Leguizamo e Oliver Platt, nda) e userà anche Sadness Soot da Mobilize.
Come hai composto la musica? Vedendo le immagini del film o leggendo lo script?
Leggendo la sceneggiatura mi sono fatto un’idea che poi ha trovato conferme durante la visione del primo montato del film. È molto ambient, in parte acustico e in parte elettronico. Un approccio diverso rispetto alla composizione di un album. Lo score cinematografico è fatto anche di frammenti di pochi secondi. E poi ci sono considerazioni di carattere tecnico: ad esempio alcuni strumenti, troppo vicini allo spettro della voce umana non possono essere usati come sottofondo ad un dialogo.
Coi Grant Lee Buffalo eri alla PolyGram, ora sei con una piccola etichetta. Com’è la vita lontano da una major?
La definirei una serie di piccole e meravigliose vittorie. Ad esempio mi hanno scritturato per una serie tv, The Gilmore-Girls, davvero popolare in Usa. Poi la colonna sonora per Zig Zag, nuove canzoni e stiamo studiando qualcosa con Michael Stipe. Per il momento, Michael ha scattato alcune foto della copertina del mio album. È una persona che rispetto e ammiro perché è l’esempio vivente che ce la puoi fare mantenendo la tua integrità artistica.
Pippo Piarulli, fonte JAM n. 82, 2002