Ragazzi, domani nevicherà viola o accadrà qualcosa di veramente inusitato: mi si dice che c’è stata una qualche forma di risposta dei lettori a questa mia rubrichina! A me ovviamente non è arrivato alcunché sotto forma di lettera o quant’altro, ma l’altro 50% della redazione dice che la rubrica è apprezzata! Se non altro, penso, per il fatto di essere la prima del suo genere nel giro bluegrassistico italiano… Stimolato, mi lancio, ed è con molta umiltà che rimando ad un ulteriore domani la discussione di modifiche pratiche, già più volte annunciata, e mi decido a chiarire alcuni concetti di fondo che, temo, avevo dato per scontati, cioè chiari a tutti, in numeri precedenti, quando forse così scontati non sono… Mi riferisco ai tipi di suono prodotti dai diversi tipi di legno, cioè a nozioni di base irrinunciabili ed essenziali per capire come effettuare un corretto set-up, concetti da possedere con sicurezza anche se descrivere una timbrica di strumento non è facilissimo. Ci provo, ma ripeto: con umiltà. Non sono un liutaio, quindi mi perdonino liutai se ne sparo alcune troppo grosse…
Come sempre tenterò di parlare di tutti gli strumenti acustici a corda in generale, ma dovrò fare riferimento, per praticità, a singoli strumenti da caso a caso.
In linea di massima, comunque, si può affermare con serenità che i diversi (anche se pochi) legni usati comunemente in liuteria produrranno timbriche simili nei diversi strumenti. Per chiarezza andiamo legno per legno.
1) Abete:
legno morbido, viene usato (con tutti i suoi molteplici e diversi ‘parenti’) per le tavole armoniche e varie strutturine interne. Diversi tipi di abete (o ‘spruce’, come leggerete sulle pubblicazioni di lingua inglese) avranno diverse caratteristiche timbriche, e l’abete non è l’unico legno usato per le tavole armoniche (il cedro, ad esempio, è di regola per le chitarre da flamenco), ma per i ‘nostri ‘ strumenti da country-bluegrassari si può dire che l’abete la fa da re, quindi non vale la pena di paragonare le sue qualità timbriche con quelle di altri legni che a noi, grezzi bifolchi, poco interessano…
2) Palissandro:
legno duro e compattissimo, difficile da lavorare ma bellissimo anche esteticamente, usato per fasce e fondo di chitarre e, assai più raramente, mandolini, il palissandro (‘rosewood’) di origine oggi solo indiana (o giù di lì), in passato anche brasiliana, è fra i legni di scelta per la caratteristica timbrica ricca, molto calda sui bassi (che possono essere a volte fin troppo prepotenti o ‘gonfi’ e cupi) ma soprattutto brillante sugli acuti, che sono chiari e frizzanti. La ‘risposta’ degli strumenti di palissandro è pronta e decisa, e il volume di solito notevole. La varietà brasiliana è oggi rara e protetta, quindi ancora più costosa di quella indiana. Pensate solo che il sovrapprezzo da pagare per avere una qualsiasi chitarra in palissandro brasiliano varia oggi fra i tre e i cinque milioni di lire: dico, solo per il legno!
3) Mogano:
duro ma poroso, quindi più facile da lavorare ma non ideale al momento della verniciatura, è usato spessissimo per manico (grazie alla sua stabilità), fasce e fondo di diversi strumenti. Produce un suono ricco, equilibrato, con bassi meno preponderanti rispetto al palissandro ma con notevole chiarezza su tutte le frequenze. La risposta è buona, e il colore del suono tende a essere piuttosto ‘legnoso’, spesso con acuti ‘grassi’ (e provate voi a spiegare un suono!). Meno costoso del palissandro anche nelle varietà migliori (Honduras).
4) Acero:
durissimo, molto diffuso in paesi a clima freddo (Europa, USA), da sempre usato per fasce, fondo e manico di molti strumenti (archi, chitarre, mandolini), l’acero ha un suono caratteristico, brillante e spesso ‘duro’, con ottimo volume e risposta decisa, acuti chiari, bassi ben definiti, e frequenze medie che si possono spesso definire ‘acidule’, molto presenti e vigorose. La varietà marezzata (‘curly maple’) è esteticamente più pregiata, anche se meno stabile per i manici se non è abbondantemente stagionata, e produce un suono molto più dolce, corposo e spesso soffice rispetto alla varietà liscia (ma non parliamo di alberi diversi, solo del modo di orientarsi delle fibre, crescita e roba del genere), quindi di solito priva dell’asprezza che può avere il timbro dell’acero liscio anche se, per contropartita, dotata di minore volume e risposta. L’acero stagionato e bello, anche se è di facile reperibilità, è purtroppo molto costoso.
5) Noce:
lo si trova veramente ovunque, ed è fra i legni duri più usati in diversi campi. Per gli strumenti trova oggi uso abbastanza limitato, visto che è usato quasi solo per il banjo (e per le chitarre, ma lo usano in pochi). Il suono che produce sta a metá strada fra acero e mogano, essendo più duro e deciso nella risposta rispetto al mogano ma contemporaneamente molto ricco di armoniche. Può avere un bellissimo aspetto, e quindi ha una schiera di appassionati anche per ragioni estetiche.
6) Koa:
legno hawaiano, simile al palissandro anche esteticamente (ma più chiaro e con disegno meno definito), viene usato quasi esclusivamente per chitarre, chitarre hawaiane tipo Weissenborn, e ovviamente ukulele. Ha un suono molto ricco e brillante.
Penso di potermi fermare qui, anche se molti altri legni, come ebano, pino, faggio, betulla e chi più ne ha più ne metta, vengono usati in liuteria per tastiere, ponti, strutture interne, impiallacciature di palette ecc ecc. La loro importanza nei confronti del suono è ovviamente minore (anche se tutte queste parti incidono comunque su di esso), e quindi parlarne in termini così generici mi sembra inutile (e difficile…). Per farvi un esempio, uno dei più grossi sconvolgimenti storici nel suono delle Martin si è avuto nel 1968, verso marzo, quando si iniziò ad installare un ‘bridge plate’ di palissandro e più larghino al posto del precedente, piccolo e di acero: il bridge plate è una piastrina sottile e della superficie di pochi cm2 al di sotto del ponte, apparentemente insignificante ma in realtà, come si vede anche dai prezzi delle Martin pre-’67, molto fondamentale per il suono.
Evitiamo in ogni caso di andare sui dettagli, per quanto fondamentali per un liutaio vero: mi premeva solo di chiarirvi un paio di cose riguardo al rapporto legno/suono, così che possiate evitare di perdere tempo a trafficare su uno strumento di mogano, ad esempio, quando il suono che desiderate è evidentemente solo quello di uno strumento di acero… E badate bene, non sto dicendo assurdità da fanatico: generazioni di banjoisti americani hanno perso il sonno sui loro strumenti, cercando di farli suonare come il banjo di Scruggs su Home Sweet Home, prima di scoprire che il loro banjo era, ad esempio, di noce mentre quello di Scruggs nel ‘periodo Foggy Mountain Banjo’ era un mischione di acero e mogano (e in ogni caso le mani erano le loro, non quelle di Scruggs…).
Idem per la storica D-28 del ’35 appartenuta a Clarence White e ora chitarra-simbolo di Tony Rice: legioni di chitarristi votati al culto di Clarence hanno fatto salire alle stelle i prezzi delle D-28, prima che qualcuno si rendesse conto che Clarence, in realtà, aveva usato una D-18 (mogano) nella maggior parte delle sue incisioni ‘storiche’…
Ma così va la vita, quindi rinuncio a fare polemiche in favore di un più utile pragmatismo: dovete conoscere le possibilità e i limiti di base del vostro strumento prima di iniziare a lavorarci sopra, perché da un certo legno non uscirà mai un certo suono, e determinate caratteristiche timbriche non potranno mai essere eliminate dal vostro strumento, se non a prezzo di sacrifici coinvolgenti altre caratteristiche: potrete ad esempio rendere molto soffice il suono di un banjo di noce, ma sicuramente ne risentiranno volume e risposta, cosí come potrete rendere più rotondi gli acuti di una chitarra di palissandro, ma probabilmente avrete anche bassi confusi e cupi.
Mi collego a queste ultime frasi per introdurre un argomento di importanza fondamentale per un set-up man intelligente: ogni variazione, modifica o aggiustamento decidiate di intraprendere su qualsiasi strumento dovrà essere sperimentato da solo e per un congruo periodo di tempo, per consentire allo strumento di assestarsi sulla modifica eseguita. E’ da suicidi, ad esempio, cambiare contemporaneamente pelle, ponticello, tailpiece, corde e angolo del manico su un banjo: nessuna delle modifiche eseguite potrà essere valutata, e sicuramente porterà ad altre modifiche (tensioni, action ecc) che necessiterebbero di tempo per potere agire a fondo sullo strumento. Ma senza arrivare a tanta demenza, di cui peraltro temo di essermi macchiato in un passato remoto, vorrei invitarvi a non fare niente al vostro strumento in alcune situazioni in cui inevitabilmente il suono cambierà in peggio: un esempio tipico è il peggioramento che molti strumenti hanno nel passaggio da un clima tiepido e umido (città continentale o sul mare d’estate) ad un clima freddo e asciutto (montagna), o al momento dell’accensione del riscaldamento d’inverno.
Anni fa ebbi un’indimenticabile esperienza da banjoista fanatico e pasticcione portando un banjo con me a una settimana bianca in casa di uno zio, casa molto calda e molto asciutta in cui tale banjo suonava da schifo: “Pelle troppo tesa!”, e molla la pelle, poi però la bestia aveva poca ‘botta’, e ritira un pó la pelle, ma poi va da se che bisogna ritoccare la tensione della cordiera… e così fu che il banjo ebbe un suono fetente tutta la settimana, anzi molti diversi tipi di suono fetente (anche se la moglie mi faceva giustamente notare che i difetti, ad un orecchio ‘profano’, quasi non si notavano), e così fu che ci vollero due settimane, dopo il ritorno a casa, per recuperare il suono accettabile di prima.
Perché in tanti casi proprio non si può fare niente per evitare un peggioramento del suono, anzi succede che qualsiasi modifica a fin di bene, vada a finire per peggiorare ulteriormente la situazione, al punto di non capirci più niente… Perciò voglio rivolgervi un invito, per quanto strano per la rubrica in cui è inserito: cercate di tocchignare il vostro strumento il meno possibile, sicuramente lasciatelo stare una volta trovato un suono che vi piace, e non reagite alle provocazioni che clima, termosifoni e chissà che altro vi getteranno in faccia (anzi, nelle orecchie).
Il mio vecchio maestro di chirurgia diceva spesso che “Il bene è nemico del meglio”, se notava una certa tendenza a muovere troppo le mani e i ferri. E’ saggezza spicciola, ma è sicuramente verità assoluta. A volte però diceva anche che “Il meglio è nemico del bene”, ma non mi sembra il caso di discutere qui di filosofia… Restate sintonizzati.
Silvio Ferretti, fonte Country Store n. 27, 1995