Parlare di Tamikrest e Songhoy Blues implica forse il tentativo, seppur molto limitato, di accostarsi meglio con la storia, passata e recente, del Mali e della macroregione del Sahara, di etnie e tradizioni specifiche, ognuna dalle lunghe e travagliate vicissitudini.
I Tamikrest sono una band touareg originaria della regione desertica nel nord-est del Mali, confinante con Algeria a nord e Niger ad est, denominata Kidal, come la sua città capoluogo. Proprio qui si sono conosciuti i membri del gruppo nel 2006, mentre il leader Ousmane Ag Mossa e Cheik Ag Tiglia (basso) sono nativi di Tin Zaouatine, un villaggio rurale di frontiera con l’Algeria. Kidal è un luogo che rappresenta l’epicentro di decenni di lotte dei touareg, teatro di rivolte e resistenze, da quella del 1963, cui è seguita una dura repressione, a quella più recente e controversa del 2012. Diviene dunque un simbolo del desiderio di libertà dei Kel Tamasheq, sempre in rapporto inscindibile col deserto, il suo clima, i suoi silenzi, tutto ciò pervade ogni aspetto della loro vita. Per questo hanno finito per intitolare l’album ad essa.
Ag Mossa ha composto questi brani nell’arco di qualche anno, dopo lunghi soggiorni nel paese natale, come avesse avvertito il bisogno, per scrivere, di tornare a casa, e non potesse farlo vivendo altrove, non sarebbe stata la stessa cosa. E’ una musica stratificata la loro, chitarre acustiche ed elettriche si combinano, intessendo delle trame mai troppo fitte; riff che imprimono immediatamente ad un brano il suo tono, ombroso, quasi meditativo, oppure più concitato, un invito alle danze. Il disco lo hanno registrato a Bamako lo scorso anno, ancora per la Glitterbeat, e prosegue sulla linea del precedente, notevole, Chatma (Il Blues n. 126). In cabina di regia questa volta non c’era Chris Eckman ma lo scozzese Mark Mulholland, un produttore e musicista che ha lavorato spesso con musicisti africani e haitiani, presente anche in veste di strumentista.
L’ensemble dei Tamikrest è arricchiato per l’occasione dalla voce femminile di Fatoumata Walet Oumar (Tartit), dal contrabbassista Hannes d’Hoine e dal polistrumentista, Yacouba Sissoko (ngoni, calebasse, djembe). Molto evocativa già la prima traccia, Mawarniha Tartit, un appello all’unità, in vista di un futuro migliore, libero. I ritmi accelerano e poi scalano di nuovo, secondo la lezione dei loro maestri Tinariwen. Il concetto di pazienza e quello di resistenza ricorrono sovente, accanto alla costante tensione verso la libertà e ad un cammino risoluto verso di essa. La voce di Ag Mossa possiede una certa severità, che manifesta senza sforzo apparente, piegando appena l’inflessione, anche in un brano sciolto e scorrevole, War Til Eridaran.
Questa qualità è ancor più evidente negli episodi più intimisti. Tra questi ultimi restano impresse a lungo Erres Hin Aotouan, che esprime un rimpianto e speranza, “se potessi dimenticare le sofferenze e il mio cuore fosse sollevato dagli affanni, vivo dei pensieri, finché diventino evidenti”. E ancor di più la chiusura acustica, Adad Osan Itibat, fondata su arpeggi di chitarra e percussioni appena accennate, veicola parole di saggezza antica, su quanto tutto sia transeunte, caduco. Kidal è un canto di dignità, una testimonianza di chi, nomade, come i Kel Tamasheq viaggia in direzione ostinata e contraria, parafrasando De André, per consegnare al tempo, in musica, gocce di splendore.
I quattro Songhoy Blues, poco più che ventenni, giungono al secondo disco, Résistance, distribuito per il mercato americano dalla Fat Possum. Dopo aver ascoltato il loro esordio (Il Blues n. 130), li avevamo visti dal vivo la scorsa estate a Lugano, in un concerto che tracimava entusiasmo, voglia di suonare. Il disco lo hanno inciso a Londra, con la produzione di Neil Comber, confermando il loro atteggiamento più rock, inevitabilmente vista la giovane età, modernista, malgrado la parola blues accanto al nome dell’etnia, Songhoy di tre di loro, originari della zona di Gao e di Tombouctou. Amano molto le chitarre elettriche e malgrado il titolo faccia riferimento alla resistenza, i toni sono uptempo e con qualche effetto che ne accentua l’aspetto progressivo.
Esempio di questo impasto sonoro è Bamako, celebrazione, opportunamente festosa, della vivace vita notturna della capitale, cantata parzialmente in francese e con qualche inserimento di sintetizzatore. Anche Sahara schiera chitarre rock che viaggiano quasi acide, sorprende ritrovare qui la voce di Iggy Pop, che in un talkin’ a dire il vero un po’ stranito, parla di come il deserto sia una “cultura genuina, non c’è pizza né kentucky fried chicken”. Meglio Hometown, un tempo medio dall’impianto acustico, dove interviene anche una piccola sezione di archi, senza apparire fuori posto. La loro ricetta guarda avanti, verso la contaminazione con i suoni occidentali, tenendo la specificità di un approccio alla chitarra che occidentale non è.
I toni sono più positivi, crediamo per porre l’attenzione non solo sulla cronaca ma su quanto di bello ci sia ancora in Mali, malgrado anni che sarebbe eufemistico definire molto complicati. Chiamano all’unità anche loro con la finale One Colour, vicina al reggae e con un coro di voci bianche a rispondere al leader (Aliou Toure). Potremmo dire che i Songhoy Blues conservano la loro spontaneità e sembrano destinati a un futuro roseo, anche se la nostra preferenza tra questi due dischi va a quello dei Tamikrest, per profondità, messaggio e capacità di trasportare in un altrove sonoro. Per capirne di più sulle differenze tra approcci musicali e sui rapporti tra Touareg e Songhoy rimandiamo anche alla bella intervista con Faris Amine apparsa sul n. 132 de Il Blues.
Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 139, 2017