A.A.V.V. - The Early Days Of Bluegrass cover album

Ecco un’ottima raccolta di dischi di bluegrass d’annata, invecchiamento trentennale, e soprattutto, D.O.C.!
Francamente devo confessare che anni fa la parola ‘grass’, diventata radice adattabile a qualsiasi genere musicale, talvolta mi sconcertava creandomi non poca confusione. Bluegrass era un doppio live a Bean Blossom, ma era anche la musica di certi New South o meglio (o peggio?) ancora di tali Newgrass Revival.
In realtà il ‘progressive’ anni ’60 aveva divincolato il bluegrass dall’ambito del folk, mentre il ‘permissive’ della seconda meta’ degli anni ’70 l’avrebbe incanalato nell’attuale NAM, definizione generica ed elusiva data, dal furbacchione di turno, anche al rispolverato jazz o a dei patetici intenti cameristici.
Intendiamoci, non è che sia un devoto del dogmatico Ralph Stanley, né pretendo che questi si metta a suonare ‘dawg’, dal momento che continua a fare il verso a se stesso; tanto meno condivido il bluegrass pedante, perfino nel look, dei Johnson Mountain Boys, né grido al miracolo di fronte al revival dopolavoristico maneggiato da alcuni praticoni che, per dare credibilità al loro redditizio amore per la tradizione, razionano anacronisticamente i breaks di chitarra; mentre penso agli Hot Rize quando si parla di bluegrass tradizionale non più rigido, ma adeguato ai tempi.
A parte le mie preferenze per una musica priva di digestivi e/o di caloriferi, nonché la diatriba che affligge la musica acustica vecchia e nuova, è innegabile che la NAM, come il bluegrass oggetto della raccolta in questione, sia l’espressione e l’evoluzione del proprio tempo e del proprio ambiente.

Ma passiamo ad esaminare The Early Days Of Bluegrass, che già dal titolo preannuncia un succulento programma che in effetti va oltre ogni rosea supposizione.
La raccolta è un libro di storia aperto sul bluegrass meno blasonato, eseguito da musicisti poco noti o ingiustamente dimenticati, e si snoda attraverso dieci dischi di cui solo nove sono stati finora pubblicati flemmaticamente senza il rispetto di un ordine di numero e di tempo, tant’è che sull’uscita dell’ultimo album, targato volume IX, non si sa assolutamente nulla. Ma la mancanza dei soliti pluridecorati, anche se taluni sono presenti all’inizio della loro carriera, non penalizza la qualità della musica, né deve far pensare ad una specie di saggio analitico sugli epigoni del bluegrass.
Credo sia doveroso ricordare che Bill Monroe non ‘inventò’ il bluegrass, ma lo perfezionò e diede identità ad una musica che si respirava già nell’aria e pertanto il tributo di riconoscenza si deve pagare tanto a lui quanto ai Bailey Brothers.

E con tali presupposti la raccolta documenta la storia del bluegrass e delle bands che contribuirono a divulgarlo dagli anni ’40 ai primissimi anni ’60, attraverso una sapiente scelta di brani, molti dei quali originali, altri appena di seconda mano, presi in prestito dall’otm e riproposti secondo i dettami della ‘nuova musica acustica’ di (e in) quel periodo.
Il punto di forza della raccolta, evidente soprattutto nelle quattro antologie dedicate a differenti bands, sta nella molteplicità degli stili strumentali così vari ed eterogenei da aver l’impressione che non sia stato tanto il bluegrass ad influenzare quanto ad essere influenzato, volta per volta, dallo Stato di provenienza, dalla cultura e dagli strumenti dei musicisti: si va così da una sorta di bluegrass ‘in vernacolo’ ad un altro più stilizzato e generalizzato, fino ad un bluegrass ‘personalizzato’, a tratti più moderno, come in tutto il terzo volume, e in particolare un brano del Shenandoah Valley Trio con tanto di steel-guitar inserita con il più sacro rispetto per le altrui orecchi
Naturalmente tali considerazioni, suggerite dall’abitudine ricorrente di suddividere il bluegrass in ‘sottofamiglie’ o catalogare uno strumento come lo status-symbol di un genere musicale anziché di un altro, risultano almeno in questo caso quanto mai inutili e limitative; in realtà, con o senza chitarra elettrica, il bluegrass di quel periodo rimane pur sempre bluegrass tradizionale, riuscendo talvolta addirittura a confondersi con ciò che oggi chiamiamo country, non essendo i due generi, musicalmente e verbalmente definiti in quanto tali.

Sotto certi aspetti il bluegrass può considerarsi il risultato scaturito da quell’uniformare gli stili musicali tipici dell’uno o dell’altro Stato, che l’industria discografica di allora operava inconsapevolmente, cosicché, ad esempio, la musica di Charlie Monroe sembra eseguita da una string-band anni ’20 con velleità di ammodernamento, mentre Heavy Traffic Ahead, prima incisione del 1946 dei Blue Grass Boys, risulta essere un brano da jug-band in una strumentazione bluegrass.
“Suonavo bluegrass prima di sentirne la parola. In quei giorni la si chiamava tutta country o hillbilly-music. Poi il Grand Ole Opry volle separarsi dalla parola hillbilly nei primi anni ’50. Coloro che non volevano più essere etichettati hillbilly iniziarono a chiamarla country & western distinguendola dal bluegrass. Quando Flatt e Scruggs lasciarono Bill Monroe si potrebbe dire che allora il termine avesse origine. In tutta franchezza, quando Lester e Earl iniziarono, noi eravamo nel giro da anni, anche se non mi sono mai considerato un musicista bluegrass… E così oggi tutto è definito come country & western o come bluegrass”.

Credo che queste parole chiariscano definitivamente l’etimologia musicale del bluegrass, sintetizzandone nel contempo i primi due o tre lustri di storia. A parlare è Carl Sauceman, dei Sauceman Bros., una delle tante bands che popolavano il Sud rurale degli States nei primi giorni del bluegrass e che riuscivano talvolta ad eguagliare, se non a superare in bravura e popolarità, almeno nel loro ambito regionale, i gruppi più noti del momento. Sicuramente questa notorietà territoriale era dovuta al fatto che i musicisti raramente varcavano i confini del proprio Stato o almeno del luogo dove avevano un lavoro regolare, sì che buona parte delle bands di allora era costituita da strumentisti part-time.
In effetti la professione del musicista bluegrass, quando il lavoro abbondava, era un diuturno scarrozzare da una città all’altra per pochi e mal pagati shows giornalieri nelle radio e nei clubs locali; altrimenti la carenza di sponsors o l’inadeguata produzione da parte di oscure labels discografiche, inducevano i più ad appendere lo strumento al chiodo, o almeno a considerare la musica come quel dilettevole che di tanto in tanto poteva unirsi all’utile. E così avevano fatto persino coloro che avevano raggiunto il Nord industriale per un più sicuro e meglio pagato posto in fabbrica. Comunque questo non professionismo aveva contribuito alla diffusione del bluegrass fuori dal Sud rurale, ma soprattutto, per quel che ci è dato ascoltare, non aveva danneggiato la qualità della musica, calorosa, a volte ingenua e continuamente sorretta da quel ‘drive’ scaturito da una tradizione popolare sana e ruspante, anziché dalla tecnica strumentale sviluppatasi con la progressiva urbanizzazione del bluegrass. D’altro canto questa precarietà di condizioni aveva anche dissipato tanta buona musica e, come se non bastasse, molta altra ancora ne sarebbe andata dispersa con l’avvento della Presley-era e della televisione nazionale, che, bandendo l’hillbilly, avrebbero costretto le piccole radio locali e le country bands, non convertite al rock, a chiudere i battenti.

La storia del primo bluegrass si conclude dunque con un periodo di ‘depressione’ finanziaria e con la tendenza, spesso imposta dalle esigenze di mercato, verso una musica economicamente più lusinghiera, che probabilmente avrebbe dato il via a quel florilegio di generi imparentati, più o meno strettamente, al bluegrass.
Quanto finora raccontato potrà essere approfondito attraverso le esaurienti ed abbondanti note di copertina o le monografie contenute all’interno di quasi tutti gli LPs qui segnalati, redatte dagli storici del bluegrass che hanno contribuito, fra l’altro con la scelta dei brani tratti dalle loro collezioni di vecchi 78; penso che fra i tanti nomi presenti, citare Dick Spottswood e Pete Kuykendall, entrambi responsabili del mensile Bluegrass Unlimited, possa essere una garanzia.
Ma ritorniamo a parlare dei dischi, dettagliatamente, iniziando dai volumi 1, 2, 3 e 5, che sono raccolte dedicate a musicisti vari, le cui incisioni si limitano a poche e rare facciate testimoniando, come dicevo, la diversità di stili tra gruppi di differenti estrazioni regionali.

Nel primo volume (1013) si respira il pre-bluegrass così come veniva interpretato nelle radio, nei bar, nelle chiese delle comunità montane degli Stati del Sud. In esso spiccano la band di Byron Parker con il banjoista Snuffy Jenkins, riconosciuto ispiratore di Scruggs e i Lilly Brothers. La metamorfosi si avverte in brani che ‘saranno famosi’: Jesse James, Somebody Touched Me, Goin’ Back To Old Kentucky, eseguiti nei classici ‘brothers-duets’, oppure col supporto di solide string-bands familiari e non.
Nel secondo volume (1014) compaiono, fra gli altri, i primi Red Allen, Frank Wakefield e Noah Crase. I brani sono i classici della tradizione ‘mountain’: dalla ballad (Tragic Romance) al gospel (Paul & Silas), eseguiti in uno stile bluegrass più definito per la reciproca influenza dei musicisti allora concentrati in Ohio in cerca di lavoro.
Il terzo volume (1015) tratta la diffusione, l’influenza e la conseguente reinterpretazione del bluegrass fuori dalla aria degli Appalachi.

Rispetto ai due precedenti LPs, si può ascoltare un tipo di bluegrass dalle vedute più ampie, che si fonde di volta in volta con lo yodel dei cowboys (Jerry e Sky), con elementi e strumenti propri della country music e persino con un banjo tenore suonato in Scruggs-style (Colwell Bros.). Sono presenti quattro rari brani dei Lonesome Pine Fiddlers nella loro migliore formazione con Bobby Osborne e Larry Richardson.
Il quinto volume (1017) è dedicato alla Rich-R-Tone Records, label fondata nel 1946 dal caparbio Jim Stanton, per la quale incisero molti nomi importanti, tra cui gli Stanley Bros., Wilma Lee e Stoney Cooper, tra l’altro presenti, in quest’album. La Rich-R-Tone fu una delle poche etichette, se non l’unica, a produrre con un ritmo sempre costante, musica di altissima qualità, nel marasma di dischi folk sfornati in quel periodo da altre labels specializzate nel settore.
Indubbiamente a Jim Stanton va riconosciuto il merito di aver diffuso la musica autentica del Sud degli Stati, prescindendo dai propri interessi economici proprio quando, nell’immediato secondo dopoguerra, l’industria discografica viveva il suo periodo d’oro e con essa anche certo tipo di folk qualunquista.

I rimanenti LPs sono dedicati per intero a cinque gruppi ingiustamente dimenticati, il cui punto di forza, oltre che nel modo di suonare, sta nel ‘drive’ prodotto da voci possenti e ben amalgamate, svezzati durante le riunioni familiari o religiose.
Tra questi musicisti, le mie preferenze vanno a Jim Eanes (Volume IV, 1016), specie nelle sides in cui spadroneggia il solido banjo di Allen Shelton; ai Bailey Bros. (Volume VI, 1018), il cui sound è quello di un ‘brothers-duet’ calato in una bluegrass band. In questo gruppo militarono molti nomi poi divenuti famosi, come l’onnipresente, almeno su questo disco, Jack Tullock. E ancora i Church Bros. (Volume VIII, 1020), il cui stile sembra ‘fotocopiato’ da Bill Monroe o da Flatt e Scruggs specie nell’uso delle voci. Inutile dire che la loro bravura fa dimenticare questa inezia.
Mi convincono meno i Sauceman Bros. (Volume VII, 1019) che sembrano uscire a stento dalla tradizione, anche se sono tostissimi nei gospels; Connie e Babe (Volume X, 1022) una band senza infamia e senza lode, il cui ‘drive’ mi sembra affidato in buona parte all’aggressivo banjo di Joe Drumright.
Per finire, mi pare d’obbligo ricordare che il merito della pubblicazione di tale monumento discografico, va alla coraggiosissima Rounder, etichetta promotrice, guarda caso, della NAM, di cui ha coniato anche il nome, e di tanto bluegrass, dalle ristampe (serie SS) al revival, compreso quello formato extralusso! O qualcuno preferisce chiamarlo ‘progressive-otm’?

Rounder 1013..1022 (Bluegrass Tradizionale, 1974)

Pierpaolo De Luca, fonte Hi, Folks! n. 17, 1986

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