John e Alan Lomax. Sounds Of The South picture

Un novembre fiorentino dal clima primaverile fa da cornice all’incontro con Alan Lomax nella splendida hall dell’hotel Monnalisa. L’etnomusicologo statunitense, su invito del Centro FLOG di Firenze in occasione di ‘Americamusica’, è venuto in Italia per un ciclo di conferenze e presentazioni di filmati prodotti sui dati delle ricerche sulla musica tradizionale svolte nel corso dell’ultimo ventennio.

HF: Mr. Lomax, lei ritorna in Italia dopo una lunga assenza portando una serie di importanti informazioni e risultati di ricerca raccolti sotto il curioso nome di cantometrica e coreumetrica. Che cosa rappresentano esattamente queste definizioni?
AL: Ritorno in Italia dopo molto tempo. 30 anni fa, per conto della BBC, feci alcune ricerche in varie regioni del vostro paese con l’aiuto e la preziosa collaborazione del Prof. Diego Carpitella. Devo dire che fu un’esperienza affascinante per l’incredibile quantità e qualità d’espressioni culturali che allora incontrai; credo che fu da questo incontro con la vostra realtà popolare che iniziai a gettare le basi delle mie analisi future proprio in relazione all’incontro di aree culturali così diverse rispetto ad una realtà geografica apparentemente compatta. Da allora i miei studi si sono sviluppati su un sistema di analisi per la comparazione interculturale dell’esecuzione musicale.

Questo sistema l’ho chiamato cantometrica e coreumetrica o per meglio dire il canto o la danza come parametro di misura: in esso ho incluso i principali stili canori di tutta l’umanità. Lo sviluppo analitico dei fenomeni produttivi di questi stili permette un ampio sviluppo di ulteriori fattori d’analisi considerando per esempio: l’elaborazione dei testi, l’organizzazione sociale del gruppo esecutore e dello stile musicale, il livello d’orchestrazione dell’insieme vocale, le fasi dell’unisono o del solo e delle suddivisioni ritmiche qualora esistano più parti d’esecuzioni, la qualità delle voci e la loro dinamica, ecc.

HF: Lei però qui a Firenze ha presentato due filmati che solo in parte si occupano dell’analisi vocale, questo perché?
AL: Infatti i due film da me diretti che ho portato, The Land Where The Blues Began (sulle origini del blues) e The Longest Trail (rapporto analitico sviluppato sul percorso compiuto dal canto e dalle danze dei cacciatori siberiani attraverso i continenti fino a giungere alla Terra del Fuoco), nascono da un primo lavoro quando ho catalogato con l’aiuto del computer più di 4.000 canti registrati da 350 culture differenti suddivisi in stili, modulazioni; quindi raggruppandoli in famiglie ho potuto tracciare delle mappe che hanno individuato circa 10 aree omogenee che corrispondono alla maggior parte di stili del mondo, che a loro volta per somiglianze possono essere suddivise in 4 aree super-continentali:
-Circumpacifico (siberiano, indiani nativi, australiani, melanesiani);
-Tropico africano (Africa nel suo complesso);
-Oceanico (proto melanesiani, malayo-polinesiani);
-Euroasiatico (Asia centrale, orientale, occidentale, europea).

Questo immenso lavoro che ho cominciato verso il 1963, osservando il canto, si è poi evoluto in modo esponenziale; voglio dire che partiti da un punto definito, molti sono stati i temi incontrati che necessitavano un maggior approfondimento di studio (società di caccia, pesca, agricoltura primitiva, cibo, usi, ecc); di fatto però questi fattori hanno rappresentato un ‘interessante freno’ che non ha facilitato lo sviluppo della ricerca che fra l’altro ha preso una strada indirizzata maggiormente verso i fenomeni della coreutica e del movimento nella danza. Eccovi brevemente spiegato il perché della presenza di questi due film come primo risultato di questa enorme ricerca.

HF: Scenograficamente, questi lavori sono da considerare più film o proiezioni documentarie?
AL: lo non credo che siano documentari. Sono un nuovo tipo di film, un metodo di utilizzo dell’immagine come prova e attestato di un lungo lavoro di studio che non per questo tralascia la fenomenologia scenografica dello spettacolo filmico: il cosiddetto ‘dentro la realtà’.
Certo è che queste proiezioni trovano sempre le solite difficoltà di diffusione nei normali circuiti di distribuzione per l’ovvia ragione che non rientrano nella categoria ‘film d’intrattenimento’. Per quanto riguarda le televisioni poi, è difficile pensare che esse si occupino dei problemi della gente e della loro cultura…

HF: Che cosa vuol dire oggi svolgere un lavoro di studio come questo (essere cioè riproduttori e ricercatori di musica tradizionale) e lavorare per un giusto riconoscimento di questa forma di cultura?
AL: La mia opinione è che è indiscutibilmente deleteria una riproduzione asettica, fuori dal contesto produttore di queste forme culturali. Magari la logica dei media potrebbe esserci contraria; io preferisco affermare che le culture non fioriscono in condizione di isolamento (anzi è difficile che possano esistere situazioni di questo tipo) ma si possono sviluppare in zone che garantiscono la loro indipendenza e che permettano contemporaneamente la libera accettazione di influenze esterne. Pensate al vostro paese che possiede una quantità incredibile di forme musicali quasi in ogni vallata e che sono per la maggior parte sconosciute al resto dell’Italia. Questi multiformi esempi di tradizioni sonore, circoscritte a realtà estremamente locali, stanno per essere sopraffatte da un sistema di media nazionali che privilegiano la musica classica o quella che va di moda nelle grandi città. In questo senso ricordo che le nazioni non generano musica ma possono solo consumarla.

HF: Sì, sono d’accordo, però in concreto cosa è possibile fare?
AL: Ritengo opportuno che la forma culturale della musica tradizionale debba entrare in modo completo nel mondo dell’‘immagine cultura’ intesa come libera e conosciuta presenza nella propria comunità e fuori da essa; ma in particolare è necessario entrare nelle scuole e nelle università senza commettere l’errore di un localismo sfrenato che nelle fasi della ricerca e della riproposta mancherebbero di un forte catalizzatore centrale distributivo: problema che per esempio noi, negli U.S.A., stiamo vivendo. Credo che questi pochi ma importanti passi provocherebbero una piccola ma grande rivoluzione culturale a fronte di un insegnamento scolastico che privilegia in forma totalizzante l’espressione storicamente considerata ‘colta’. Pur riconoscendone la validità, il nostro obiettivo deve essere un altro al fine di sconfiggere il livellamento e l’appiattimento culturali che fanno scomparire le migliori forme d’espressione artistica. E cioè il prodigarsi affinché si crei la moltitudine delle culture del mondo, nel rispetto delle loro forme animate dal principio dell’equità.

Giancarlo Nostrini, fonte Hi, Folks! n. 21, 1987

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