Da quando sei professionista e da quanti anni hai questa formazione?
Praticamente non ho mai fatto altro nella mia vita. Mi sono diplomato nel ’94 e quell’anno formai gli Adels. Quasi immediatamente iniziammo a fare anche 4 concerti a settimana, per tutto l’anno. Non avevo veramente tempo e voglia di fare altro oltre la musica.
Questa formazione (Don Diego Trio) esiste dal 2014, ma era tanto che volevo creare una band con la quale esprimere tutte le mie influenze. Con il trio abbiamo realizzato ben quattro album, “Greetings From Austin” è il più recente.
Quale è la % di originali e cover nei tuoi dischi?
Cerco sempre di privilegiare i miei brani, limitandomi ad un minimo necessario di cover, scegliendo tra gli artisti che ritengo essere appropriati al mood del disco sul quale stiamo lavorando. E’ vero che la ricerca delle cover a volte è più stremante della composizione stessa, ma bisogna concentrarsi sulle proprie esperienze e farle diventare canzoni.
Quali sono i vostri artisti di riferimento?
Ognuno di noi ha i suoi gusti, che spesso si intrecciano, ma a volte divergono. Durante i nostri lunghissimi viaggi quando metto un disco di Dale Watson o di Junior Brown siamo tutti d’accordo. Questo vuol dire anche che tutti gli artisti che compongono il background di questi due giganti della musica americana sortiscono lo stesso effetto (Ernest Tubb, Red Simpson ecc).
Come è andato modificandosi il tuo/vostro stile nel tempo?
Diventiamo sempre più rispettosi delle radici della musica americana. Dopo il nostro primo viaggio negli States abbiamo imparato le basi del linguaggio honky tonk. Siamo partiti convinti che per far presa sugli ascoltatori bisognava sempre premere sull’acceleratore, siamo tornati con la convinzione che un’esecuzione più intima e ragionata tocca l’animo di chi ti ascolta in maniera più convincente.
Cosa manca all’Italia per essere un paese perfetto per un artista R&R?
Manca la quotidianità della musica. La possibilità che il RnR, quello vero, si possa sentire alla radio, in TV. Sta diventando una cosa troppo di nicchia. E il RnR non è musica di nicchia.
Cosa ha l’Italia che manca agli altri paesi?
Ha una tradizione di swing invidiabile, che bisogna cercare di portare avanti. Testi spensierati, ironici, uniti ad arrangiamenti bellissimi, eseguiti da incredibili musicisti. Spesso ci dimentichiamo di questo aspetto. Una sera ad Austin siamo stati invitati sul palco a suonare, durante lo show di Dale Watson del martedì, quello dove suona prevalentemente western swing. Sul palco ci siamo divertiti a suonare alcuni pezzi di Buscaglione, di Natalino Otto e di Louis Prima. Per il pubblico è stata una piacevole sorpresa.
Con quale artista storico avresti voluto passare un pomeriggio suonando?
Django Reinhardt, è stato il più grande chitarrista della storia, un compositore sopra le righe e un personaggio istrionico. Un pomeriggio con lui, chitarre alla mano, whisky ben stagionato nel bicchiere… un sogno.
Con chi vorresti nascesse una collaborazione?
Mi piacerebbe che qualche nome noto della musica italiana decidesse, come succede spesso oltreoceano, di dedicare un periodo della sua carriera alla riscoperta della roots music americana e decidesse di appoggiarsi ad una band come la mia, molto impegnata in questo filone. Non sarebbe figo un disco con brani di Hank Williams, Johnny Cash, Ernest Tubb, per esempio, suonato dal Don Diego Trio e cantato da Vinicio Capossela?
Com’è il vostro ultimo disco?
E’ bellissimo (detto da me….), perchè è molto diverso dai nostri precedenti ed è molto diverso da quello che è stato inciso finora in Italia. E’ pura musica “Ameripolitan”, quindi c’è dell’honky tonk, del classico country, del western swing e, ovviamente, del rockabilly root.
Chi ha più successo con le donne dei tre?
Ovviamente Luca, il nostro bassista. E’ single, ha quasi 20 anni meno di noi e ha ancora le forze per andare agli after party, mentre io e Sandro ci rintaniamo in hotel.
Quale modello di moto e auto preferite?
Una Harley a carburatore, piccola ed essenziale, tipo uno Sporster! Hey ce l’ho già! Auto? Beh il corrispettivo: un hot rod su base Ford, nera opaca, essenziale e veloce, magari col cassone aperto, dove poter montare un set minimale per suonarci sopra. Ho comprato la mia prima e ultima moto nel 2001. Il mio concetto di moto è molto simile a quello di musica: semplicità, essenzialità, funzionalità. Quindi niente orpelli, solo tante buone vibrazioni, un legame diretto con la strada. La filosofia del bobber mi si addice, così come preferisco una trattoria ad un ristorante stellato, così come mi sciolgo davanti ad un trio che suona nudo e crudo, invece che di fronte ad un’orchestra. Sulla mia moto ho levato tutto il superfluo, ho fatto decorare la tanica da Capitan Blaster, con un pinstriping che ricordasse quello sui più iconici rat rod (linee e fiamme rosse e bianche su sfondo nero, un classico senza tempo). Ho montato uno scomodo sedile singolo, messo le gomme MKII. Non lo prendo da un bel po’ ormai, perché sempre in tour e quando sono a casa i miei figli mi assorbono al 100%. Però lo adoro e spero sempre di poter tornare in sella quanto prima. La solitudine di una strada siciliana di campagna in sella a un 2 cilindri borbottante equivale all’ascolto di certe canzoni intime di Johnny Cash.
Ad alcuni Harley senti dire “non salirei mai su una inglesina”, a me invece l’idea di avere anche una Triumph mi solletica tanto. Spero di prendere una Bonnie prima o poi, anche questa minimale e spartana. E magari un hot rod ignorante come un blues di Lightning Hopkins.
I miei due compagni di squadra non capiscono niente di moto! E penso che a volte mi giudichino fuori di testa quando, a qualche raduno, mi perdo in disquisizioni sull’anno di nascita di un modello. Ovviamente ognuno ha il suo carattere, ma prima o poi riuscirò a fargli provare l’ebrezza delle vibrazioni di un motore vero. E lì non si torna indietro. E’ come il sesso, una volta che l’hai provato, passi la vita cercando di replicare questa esperienza. La differenza col sesso è che un giro in moto è meglio da soli.
Maurizio Faulisi, fonte Chop & Roll n. 34, 2017