Don Edwards - My Hero Gene Autry cover album

Il luogo: il Wells Theater, nei pressi dell’Autry Museum of Western Heritage a Los Angeles. La data: 28 settembre 1997. L’occasione: il 90° compleanno di Gene Autry. La star della serata: Don Edwards. Il comprimario di lusso: Peter Rowan.
Chi sia Gene Autry lo sanno anche le sedie; non occorre perciò rammentare che è stato il cowboy hollywoodiano per antonomasia. Fu lui che, prima dì Roy Rogers e di mille altri negli anni ’30 e ’40, portò la leggenda del cowboy canterino sugli schermi di tutto il mondo, facendo sognare praterie e canyons a tutto il pianeta, grandi o piccini che fossero. Una sorta di Bing Crosby del West, portò a tutti le sonorità del country rendendole ben accette anche a quei settori che in precedenza le consideravano adatte ad un pubblico grezzo e regionale. Canzoni come Ghost Riders In The Sky, Tumbling Tumbleweeds (quei cespugli che rotolano spinti dal vento nei villaggi ai bordi del deserto), Twilight On The Trail e Home On The Range, come mille altre poi riproposte da innumerevoli artisti, devono in gran parte a lui la loro popolarità.
In pratica, Gene Autry divenne un vero e proprio Mito per più di una generazione. E, tra coloro che ne raccolsero con rispetto l’eredità, ci fu Don Edwards.

Don ha dedicato la sua intera vita a tramandare lo spirito del Vecchio West. Attraverso le sue ricerche e registrazioni, egli fa rivivere antiche e nuove melodie che in un modo o nell’altro fanno riferimento alla vita nelle praterie, alle mandrie da trasferire per distanze incredibili, a quegli uomini che con il loro sacrificio hanno spostato il confine da una costa all’altra. La storia è la solita: ancora ragazzino il Nostro sognava la vita sulle piste leggendo i libri che narravano le gesta di quella razza estinta di uomini liberi con il cielo per tetto. Poi arrivarono i films di Gene Autry, appunto, e le canzoni di grandi storytellers come Tex Ritter e poi Jimmy Rodgers, il ferroviere cantante, il triste yodeler (lo yodel è quel modo ‘gorgheggiato’ di cantare che, chissà come, si è trasferito dalle Alpi tirolesi al Colorado, diventando una cifra stilistica tipica del genere western. Ascoltate il primo brano del nostro CD e capirete di cosa stiamo parlando).
Con tali premesse, non c’è da stupirsi se Don finì a fare lui stesso il cowboy a soli 16 anni.
Tentò anche qualche mossa nel campo musicale ma senza troppo successo, vista la sua monomania western; i tempi non erano maturi. Tuttavia, il suo impegno (Don aveva fondato perfino la sua personale etichetta per promuovere la musica che amava, la Seven-Shoux) era seguito da un ristretto numero di aficionados e altamente rispettato.
Le cose si misero a quagliare quando, nel 1990, Don incontrò Michael Martin Murphy che stava preparando il suo disco Cowboy Songs. Poiché Michael conosceva da tempo il lavoro di Don, lo invitò a cantare nel disco Old Chisholm Trail. Il disco ebbe un successo straordinario e spalancò nuovamente le porte al genere (ricordiamo che si dice Country &… Western proprio per il grande spazio che ebbe in passato la musica dei cowboys) e procurò un contratto anche a Don con la Warner Western, un etichetta fatta nascere apposta dalla Major per promuovere il genere, che riscuoteva un rinnovato interesse e… procurava nuovi profitti!

Va detto comunque che mai del tutto esso era morto. Dopo i fasti di Autry, Ritter e dei Sons Of The Pioneers, c’erano stati Marty Robbins, lan Tyson ma anche Dean Martin (My rifle, my pony & me), Robert Earl Keen Jr. e perfino Leo Kottke e molti altri che, quantomeno, avevano tenuta viva la fiaccola, infilando qualche canzone prettamente western nei loro albums.
Ma veniamo a questo stupendo tributo che è un po’ la summa di una vita e forse di un’intera epopea. Ci sono molti classici, suonati nel modo giusto, con quel tocco di fiddle e di steel (non pedal, per favore! Parliamo dello strumento reso famoso da noi da Santo and Johnny, se ci consentite l’accostamento. Il risultato è quella venatura ‘anticata’ che fa tanto anni ’40) che rendono l’atmosfera rilassata e sognante.
Il concerto si apre e si chiude, quasi una sorta di ‘bookbends’ a racchiudere i gioielli, con la citazione di Back In The Saddle Again che era per Autry quello che Happy Trails (citata, anche se con un pò d’affettuosa ironia, anche dai Quicksilver Messenger Service del compianto John Cipollina… tanto per dire la forza di ‘sta musica) era per Roy Rogers. C’è poi l’acustica, cantata a due voci quasi alla Carter Family, That Silver Haired Daddy Of Mine, proposta a suo tempo anche dai ‘rockettari’ Everly Brothers per significare che le radici non si troncano.

Citiamo inoltre due capolavori quali l’arcadica Riding Down The Canyon, distesa e bucolica quanto basta per far sognare gli open spaces, e Twilight On The Trail, che commenta il tramonto nella prateria e lo paragona al Paradiso. Molto opportuna è la riproposizione dell’allegro walzerino che Marty Robbins compose per esprimere la sua ammirazione a Gene e che è intitolato nientemeno che My Hero Gene Autry.
Curiosamente, la voce di Don diviene fin troppo simile a quella di Marty, tanto forte è la sua impronta sul brano. Non mancano i due principali successi commerciali di Autry: Mexicali Rose e South Of The Border (oltre a Sinatra, ne fece una versione in italiano anche, ehm, Gino Santercole, cognato di Celentano, con il titolo di Stella D’argento!).
Riguardo alla band: Peter Rowan accetta di buon grado un ruolo di secondo piano e fa un lavoro onesto, come gli altri strumentisti. Ma qui non servono virtuosi, ma gente che faccia le note giuste con il giusto feeling. E in questo, i Nostri sono bravissimi.
Sono consapevole che qualcuno potrebbe buttarla sul kitsch, sul fatto che i cowboys sono un’invenzione hollywoodiana: machos con cappelloni borchiati, pistoloni col calcio di madreperla, speroni d’argento, camicie ricamate, pantaloni di cuoio e via discorrendo. Ma qui ci sono sentimenti veri e soprattutto una musica che ha attraversato il secolo ed è ancora vitale e pimpante: come il novantenne Gene Autry. E poi, lo confesso, anch’io ho sognato di essere Pecos Bill e di chiamare il mio cavallo con un fischio mentre una voce baritonale intonava Red River Valley. Questa è musica per romantici dreamers. E’ kitsch? E che ce ne cale?

Shanachie 6032 (Cowboy Music, 1998)

Maurizio Angelo, fonte Out Of Time n. 28, 1988

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