Earl Scruggs senza la Revue, finalmente!
Dal 1969, anno infelice del distacco da Lester Flatt, a oggi il ‘padre del banjo bluegrass’ ci aveva propinato quasi esclusivamente cose mediocri, sfilze di album insignificanti solo a tratti interrotte da rari bagliori, più che ovvii dato il personaggio, in alcuni pezzi della Revue o in partecipazioni in album altrui (valgano per tutte le ottime sides di Will The Circle Be Unbroken). Le critiche negative di questo periodo hanno rischiato di eguagliare quelle positive dei venti e rotti anni precedenti, ad onta del favore di un certo pubblico vagamente country-rockettaro. Papá Scruggs, peraltro, non ha mai mostrato di essere troppo disturbato dalle critiche negative, e ha continuato tranquillamente a proporre la propria visione della country music, visione personale anche se discutibile. Ma Top Of The World è bello, ed Earl è uno dei motivi principali per cui l’album è piacevole all’ascolto: il suo stile in questi anni non è stato minimamente intaccato dalla fracassoneria dei figli e dei loro complici, anzi, in una certa misura pare avere conseguito una maturità ed una completezza maggiori, forse attraverso le dure prove sostenute nel tentativo di adeguare ‘the old five string’ ad una musica a cui lo strumento, in fondo, non appartiene poi molto. Sono nati così passaggi, soluzioni ed espedienti ritmici nuovi, anche se apparentemente non molto diversi dal ‘solito’ stile del ‘vecchio’ Earl Scruggs.
Il timbro, poi, è tornato ad essere quello di un tempo, ricco di nuances e colori sempre diversi e sempre perfettamente adeguati al momento: chiunque abbia provato a suonare un banjo sa perfettamente quanto limitato questo strumento sia dal lato timbrico, e quanto possa essere quindi pregevole ogni virtuosismo teso ad esaltare timbri diversi.
Ma non è solo questo aspetto a rendere valido Top Of The World, e credo che possa anche solo bastare l’elenco di alcuni nomi per motivare il mio amore per questo album: Ricky Skaggs, Bobby Hicks, Jerry Douglas, John Beland e Gib Guilbeau (Burrito Bros.), Rodney Dillard ed altri sono qui utilizzati al meglio nelle più varie atmosfere in pezzi diversissimi, che vanno dal ‘tradizionale’ Sittin’ On Top Of The World, ai classici di Flatt & Scruggs We’ll Meet Again Sweetheart e Till The End Of The World Rolls Round, alla delicata Could You Love Me di Carter Stanley, il ‘countryeggiante’ Carolina Star; se l’ennesima versione di Paradise non ci dice gran che, c’è però un’ottima Love Gone Cold, con un fantastico cambio di tonalità a metà, a dirci che Earl ha ancora grandi idee.
Dei due strumentali Lindsey si lascia ascoltare, mentre Roller Coaster ci fa un po’ sorridere: dopo 28 anni Earl prende il classico Randy Lynn Rag, cambia la tonalità e ne cava fuori un pezzo nuovo con poca fatica (il vecchio marpione!).
Restano da vedere i lati negativi, anche se non compromettenti, di questo album. E’ presto detto: troppe, inspiegabili, chitarre, l’uso di un piano elettrico Fender che non si sente quasi (e allora perché usarlo?), e di un Casio che non si sente affatto, alcuni interventi vocali a mio parere un po’ fuori luogo per stile e arrangiamento, e una produzione in generale un po’ sovraccarica. Ma tutto ciò non mi fa perdere per niente la speranza che Earl sia tornato davvero ai vecchi amori, e con uno spirito rinnovato dalle esperienze fatte nel corso di un periodo che, senza la minima fatica, siamo disposti a dimenticare. Non c’è ancora da ‘sedersi in cima al mondo’, ma la strada è quella buona.
Columbia FC 38295 (Bluegrass Tradizionale, 1983)
Silvio Ferretti, fonte Hi, Folks! n. 5, 1984