Elizabeth Cook - Balls cover album

Mi aveva colpito Hey Y’all del 2002 perché era uno dei pochi album country prodotti da una grande casa discografica che, stranamente, mi piaceva. Di solito le grandi major producono album di blanda musica pop che poi, dopo qualche aggiunta di fiddle e mandolino qua e là, spacciano per country. Il mio stupore però non è durato molto, dato che Hey Y’all è stato il primo e l’ultimo album della Cook con la Warner, prima di essere scaricata e di andare ad accrescere le fila dei cantautori indipendenti.
Balls è il suo secondo album da indipendente e, a mio avviso, il suo migliore in assoluto (sino ad ora). Si tratta di undici composizioni (nove originali più una cover dei Velvet Underground e un brano del marito Tim Carroll) per una durata totale di circa 33 minuti.
Nonostante l’etichetta ‘indie’, l’album vanta comunque collaboratori di tutto rispetto: dal produttore Rodney Crowell, che ha lavorato con Guy Clark, Beth Nielsen Chapman, Jim Lauderdale e Roseanne Cash, ai musicisti (Tim Carroll, Kenny Vaughn, lo stesso Crowell) e ai cantanti ospiti (Nancy Griffith e Bobby Bare Jr.). D’altra parte, il budget, quello sì, era ‘indie’, cioè limitato, e per questo l’album è stato registrato in pochi giorni, per lo più dal vivo, con minimi ritocchi in fase di mixing e mastering, risultando così in un ‘sound’ rustico, ma anche genuino e immediato.

I brani sono di stampo tradizionale e infatti i primi nomi che vengono in mente, se bisogna fare un confronto, sono quelli di Dolly Parton e di Loretta Lynn. La prima traccia è Times Are Tough In Rock ‘n Roll, un’accusa allo stato della musica commerciale odierna, fatta al ritmo incalzante dello scacciapensieri e con versi del tipo “All my feelings, all my fears were confirmed with Britney Spears”, in cui la Cook sfodera tutta la sua irriverenza verso la ben più celebre collega.
Sometimes It Takes Balls To Be A Woman è la canzone che dà il titolo all’album ed è in sostanza un’ode a tutte le donne forti che ‘qualche volta devono avere le palle’ per reclamare il proprio spazio nella società e fare vedere chi sono.
Rest Your Weary Mind è un bel duetto dal tono elegiaco con Bobby Bare Jr.; sembra qualcosa prodotto cent’anni fa e la Cook vi canta con una voce che ricorda la ‘old-time revivalist’ Grey Delisle. L’album riacquista vigore con l’hillbilly di He Got No Heart, in cui la Cook si scatena con un’energia degna di Wanda Jackson, per riprendere poi un’aria più meditativa in Mama’s Prayers, che ricorda molto per tematica e musica la Iris DeMent di Mama’s Opry.
Sunday Morning è la celebre canzone dei Velvet Underground, rivisitata in chiave country, con risultati molto convincenti. Potrebbe essere il cavallo di Troia, se trasmessa alla radio, per avvicinare un pubblico non avvezzo al country a questo tanto bistrattato genere musicale.
What Do I Do è un altro grande brano honky-tonk (l’album alterna continuamente brani lenti e veloci, rendendo l’ascolto piacevole e vario), seguito dal mesto Down Girl, che parla della capacità di resistenza di una donna abbattuta dalle avversità della sorte.

Il tema (certo autobiografico) dell’avversità della sorte ritorna nei brani finali; viene affrontato con piglio di rivincita nel vivace honky tonk di Gonna Be (“I’m not an has been, I’m still a going to be, you just wait and see, you just won’t believe”) e nella malinconica, ma anche piena di speranza, ballata di Always Tomorrow, composta da Tim Carroll.
Elizabeth Cook è cresciuta molto da quando l’avevamo lasciata nel 2002 con Hey Y’all e siamo sicuri che riuscirà, grazie a questo album, ad ottenere il successo che merita. Per riuscirci, come direbbe lei, Sometimes It Takes Balls To Be A Woman.

Thirty Tigers TOT3101 (Traditional Country, 2007)

Vito Minerva, fonteTLJ, 2007

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