Nella storia del folk nordamericano bianco di matrice urbana esistono tre artisti che possono essere accomunati in modo incredibile per le loro attività in vita e per strane coincidenze sulle circostanze della loro morte.
Paul Clayton, Pat Dunford e Fleming Brown sono nomi poco noti alla gran massa degli appassionati anche se il loro contributo alla riscoperta di musicisti tradizionali da tempo nell’oblio, all’organizzazione di festivals, all’animazione di programmi radiofonici in tema risulta tutt’altro che irrilevante.
Tutti e tre hanno registrato sul campo estensivamente in diverse parti degli USA godendo di grande considerazione fin dagli albori del movimento; tutti e tre, eccellenti musicisti (dulcimer e banjo), si sono prodigati all’inverosimile nel recupero delle tecniche tradizionali con un’impronta stilistica personale e, con la sola eccezione di Clayton, della loro attività solistica in circa 40 anni hanno tramandato una quantità di incisioni decisamente ridicola rispetto alle loro reali capacità.
Tutti e tre hanno avuto a che fare con alcol, droghe, terapie intensive di disintossicazione, ospedali psichiatrici e, fatalmente, con vasche da bagno assassine. In una di queste, pochi mesi orsono, gli amici trovarono il corpo senza vita di Fleming Brown.
Nato nel 1926 in Missouri, Brown si interessò molto precocemente alla musica tradizionale prendendo a modello artisti come Uncle Dave Macon e Dock Boggs; conobbe in seguito di persona Doc Hopkins, Hobart Smith, Frank Proffitt e Bascom Lamar Lunsford instaurando con costoro un sodalizio durato tutta la vita. Come musicista part-time – di professione faceva il grafico pubblicitario e dava lezioni di banjo alla Old Town School of Folk Music di Chicago – partecipò tra l’altro alla prima edizione del festival folk di Newport nel 1959 (è presente con due brani sull’omonimo disco della Folkways), accompagnò Big Bill Broonzy in parecchi concerti ed incise un buon LP per la Folk-Legacy (FSI-4, 1962).
Little Rosewood Casket & Other Songs Of Joy è stato registrato in massima parte dal vivo alla fine del 1984 ed esce per una sconosciuta, almeno per il sottoscritto, etichetta di New York.
Bisogna subito dire che Fleming non poteva lasciare eredità più consistente ed un migliore ricordo di sé. I 14 brani dell’album rappresentano l’ultima lezione tangibile di un grande musicista non solo in termini di virtuosismo strumentale (parecchie tracce testimoniano ampiamente la sua eccellente preparazione attraverso svariati stili al banjo) ma soprattutto di comunicabilità e di emozioni.
Bene, Brown è uno di quegli artisti che, armati solo di corde vocali e corde da pizzicare, riescono ad inchiodarmi alla poltrona coinvolgendomi totalmente; e tutto ciò con una semplicità disarmante, un vigore ed una naturalezza tali da mettere a repentaglio non poche prove su vinile di banjoisti di revival dell’ultima ora.
Il disco appartiene alla categoria di quelli assolutamente imperdibili. L’unico rammarico consiste nel fatto che ancora una volta, l’ennesima, ci si debba esprimere in termini entusiastici di un artista solo dopo la sua scomparsa.
Merrywang 1953 (Old Time Music, 1985)
Pierangelo Valenti, fonte Hi, Folks! n. 13, 1985