Le canzoni di Guy Clark appartengono al vento, fissate solo per un attimo nella forma disco, per essere poi liberate subito dopo, restituite al loro incessante randagio divenire. Moderno folksinger, Clark è quello che più di ogni altro (e con gli anni le affinità si fanno sempre più intime) ha raccolto il testimone lasciato dall’amico e compagno di strada Townes Van Zandt, proseguendo con sommessa e un po’ di altera solitudine, l’umile lavoro di cantastorie della provincia contemporanea americana, intendendo per essa non tanto un luogo geografico ma piuttosto una dimensione culturale, uno stato esistenziale.
Il Texas, ma anche Dublino e l’Europa, il country, ma anche le irish reel, il blues, il folk rurale, sono i luoghi ed i dialetti di questo trovatore sopravvissuto all’era del digitale cambiando poco o nulla nella semplice ed artigiana alchimia del suo songwriting. Un songwriting pigro, che riflette la personale indole dell’autore, che ha raramente deluso chi ha avuto la pazienza di attenderne gli esiti.
Accade lo stesso anche con questo recente The Dark, che segue di 3 anni Cold Dog Soup, e che come i precedenti, poco aggiunge in termini di novità compositive a quanto Clark già espose, magnificamente, sin dal debutto di Old Number One, ma che tanto ancora sa regalare a chi sa ascoltare nelle pause di una cornice sonora linda ed essenziale e nelle reticenze di un cantato che spesso diventa racconto, l’emozione di un giovanotto con i capelli bianchi capace ancora di condividere dubbi, sorrisi, qualche lacrima.
Un disco maschio ed orgoglioso, giocato sulla semplicità di accordi rubati al vento, cui le parche stringhe di Verlon Thompson e Darrel Scott regalano una sobria cornice ricca di colti suggerimenti, giocati in sottrazione.
Un disco anche da leggere, chè le storie cantate da Clark hanno il passo sbilenco di poesia ubriaca e sono, in fondo, l’unica ragion d’essere delle canzoni.
Sugar Hill 1070 (Singer Songwriter, 2002)
Mauro Eufrosini, fonte JAM n. 86, 2002