Di musicisti come Talley non ne è pieno il mondo: pochi riescono come lui a comunicare i sentimenti che lo legano alla propria terra, così chiaramente e sinceramente (mi si perdoni il positivismo più che giustificato in questo caso, che userò verso James Talley, ma d’altronde come non parlarne bene alla luce di quattro album molto belli, coerenti, il cui filo conduttore non è mai caduto, ma, anzi, è stato rinfrescato e vivificato…). Non si hanno molti dati biografici su di lui, solo la nascita a Mehan, Oklahoma in un giorno dimenticato di tante lune orsono, ma forse è meglio così, e sicuramente il suo primo album (uno dei dischi che mi sono più cari) parla molto meglio di qualsiasi biografia. L’anno è il 1974 e Got No Bread, No Milk, No Money, But We Sure Got A Lot Of Love, s’impone subito all’attenzione degli amanti della country music per la bellezza e la riuscita mescolanza (tex mex music – hillibilly ecc…) dei generi che lo compongono. E’ questa una caratteristica che seguirà Talley in tutto il suo discorso discografico e musicale, tale da renderlo uno tra i più originali country singers statunitensi.
La copertina di Got No Bread…, Talley assieme alla primogenita ed alla moglie in attesa di un secondo figlio davanti alla drogheria di sua proprietà (?), ci lascia immaginare un personaggio caldo e sincero, cresciuto in mezzo alla gente fra cui appunto ha coltivato per anni canzoni e ballate: il risultato di tutto questo è ben evidente in Got No Bread…, disco splendido dall’inizio alla fine, equamente diviso fra le ballate biografiche (Mehan, Oklahoma) e quelle nostalgiche (Red River Memory, Take Me To The Country e la bellissima Calico Gipsy, ripresa anche da Jim Rooney). Grande parte la giocano pure i musicisti che accompagnano il cantautore e che diventeranno una line-up quasi fissa per tutti i suoi dischi: Johnny Gimble (ex Texas Playboy di Bob Wills) assicura le coloriture hillibilly col suo prestigioso fiddle; Doyle Grisham (dei Country Gentlemen), steel guitar di gran classe, è costantemente presente col suo strumento… Rick Durrett è un keyboarder delizioso! Gimble e Grisham sono musicisti di grande duttilità, infatti passano senza fatica dall’hillibilly di pezzi quali W. Lee O’ Daniels And The Light Crusy Dough Boys, che rappresentano i momenti più briosi del disco, alla liricità pacata delle ballate o degli strumentali d’ispirazione tradizionale. Un esempio ne è Big Taters In The Sandy Land, un gioiello, opera di Gimble che vi imperversa deliziosamente a cavallo fra le due facciate.
Chiuso il capitolo felice di Got No Bread…, James Talley attende due anni per pubblicare il suo secondo disco. Tryin Like A Devil, questo è il titolo, vede la luce nei primi freschi mesi della primavera ’76 e denota se non un certo avvicinamento, almeno un profondo interesse del cantautore per il blues inteso come musica negra, una realtà ed un popolo che James ama nella sua musica, così come nella sua vita, e che emerge in brani quali Forty Hours o Nothin But The Blues. Il restante materiale dell’album raccoglie ballate sentimentali (She Tries No To Cry; She’s The One; Sometimes I Think About Suzanne), mine songs (canzoni minerarie). Struggente nella melodia e nel testo Give My Love To Marie di certo una tra le più belle songs mai composte da Talley, che ritrae in una metafora il polmone nero di un minatore di carbone, che prega i suoi amici di porre la sua lanterna alla finestra, come a dimostrare l’immortalità dell’amore che lo lega alla sua Marie.
Un anno dopo durante i primi mesi del 1977, è la volta di Blackjack Choir registrato come di prammatica al Jack Clements Recording Studio di Nashville. Una splendido alternarsi di ballate dedicate al blues, ai suoi personaggi, al profondo sud. Alcune più dure come Bluesman, altre più nostalgiche come Mississippi River Whistle Town costituiscono l’essenza di questo straordinario album. Rappresenta, in un certo senso, una svolta musicale per Talley, che pur ci aveva abituati nei suoi due primi album a calde immagini di una certa America di provincia, osservata in un modo umano, ma soprattutto ciò che emerge qui è una calda vena di blues, tenuta un po’ nascosta nei precedenti dischi e rivisitata con innata passione dalla voce di Talley, che non scimmiotta i bluesmen negri, ma inventa e vive sinceramente di persona le sue canzoni. La gente del sud, non solo il popolo negro, è in pratica la vera protagonista dell’album, con le sue storie: ascoltate Migrant Jesse Sawyer, Magnolia Boy oppure la bluesistica ed originale Daddy Just Colled It The Blues e vi troverete d’accordo con me. La cornice di musicisti è la stessa di Got No Bread… e Tryin Like The Devil, in più c’è da rilevare la prestigiosa presenza in Bluesman, brano a lui dedicato, della guitar di B.B. King.
In questo stesso anno, il buon Jim Talley ci regala uno tra i migliori dischi settembrini: Ain’t It Somethin, che raccoglie alcune idee sviluppate negli album precedenti, assieme a rivisitazioni, col suo personale calore, di certi temi classici della traditional music americana, e una particolare cura negli arrangiamenti. Ain’t It Somethin, brano iniziale, è un ottimo e corposo rock blues in cui fa spicco l’eccellente lavoro dei fiati (Bill Puett e Marty Grebb) e l’arrangiamento ottimo che consente al gruppo di Talley di fornire una buona base per il cantautore. Only The Best, invece è un regalo (o favore: Rooney aveva usato la Calico Gipsy di Talley per il proprio album solo One Day At A Time, di rounderiana memoria) di Jim Rooney. Il brano è solo eccellente purtroppo, per la versione troppo heavy usata dal cantautore nell’arrangiare il pezzo, (la colpa principale va data alle percussioni che intaccano non poco quella che dev’essere stata la bellezza originale del pezzo), anche se ci sono dei gustosi interventi di steel (Grisham). Con We Keep Tryin ritorniamo felicemente fra i temi più adatti a Talley, e le vibrazioni continuano grazie all’ottimo lavoro organistico di Rick Durrett. Dixie Blue è un momento magico e catalizzatore della raccolta costruito su timidi interventi di clarinetto (Bill Puett) e banjo accompagnatore (Randy Scruggs) che rendono l’atmosfera a dir poco ispirata e sincera. Not Even When It’s Over, caldo e nostalgico pezzo nella migliore tradizione di Talley, lascia chiari segni nel cuore. Nine Pounds Of Hash Browns è certo una delle canzoni più superficiali del disco.
Richland, Washington brano che apre la side two, ci restituisce il Talley più tipico, quello cresciuto in mezzo alla gente, capace di darti nello spazio di tre minuti la vita o storia di paesi e persone in un modo del tutto semplice, ma incisivo e reale. Middle ‘c’ Mama è un grintoso country blues arricchito da punteggiati interventi chitarristici (Steve Hostak) e dobroistici (Josh Graves). Più ritmico e stringato Woman Troubles anche se sono chiari gli accenti e riferimenti bluesistici. Spontanea e fresca la rivisitazione di Old Time Religion uno dei classici della musica americana, qui trasposto in chiave elettro-acustica, con interventi appropriati di cori in stile gospel. Poets Of The West Virginia Mines credo sia il miglior brano dell’album: l’atmosfera dolce e vissuta che vi traspare ne favorisce la grande e personale interpretazione di Talley, ed ancora una volta l’argomento trattato con umanità è la vita cui sono sottoposti i minatori. What Will There Be Far The Children sigla meritatamente e dolcemente questa quarta fatica di Talley. Ain’t It Somethin è certo un album da leggere in modo attento e profondo, più che i passati episodi dell’artista, ma non per questo meno valido, anzi qui ci sono le indicazioni chiare di quella che sarà la musica del cantautore in futuro e noi le raccogliamo con gioia. Continua così Jim, che sei nel giusto!
Capitol ST – 11695 (Singer Songwriter, 1977)
Mauro Quai, fonte Mucchio Selvaggio n. 3, 1977
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