Il country rock, o folk-rock che dir si voglia, sta attraversando una crisi creativa difficile e apparentemente senza vie d’uscita. Quando si sceglie un linguaggio con regole così precise e codificate, non ci si può permettere il minimo cedimento alla routine, alla mancanza di ispirazione, non ci si può rifugiare nel professionismo. Si sente più che mai, bisogna dirlo, la mancanza di una mente come quella di Gram Parsons. I bei tempi dei Flying Burrito Brothers di Gram, quando sembrava possibile la sintesi di tante culture musicali in un unico stile, sembrano tramontati definitivamente. E anche i vecchi leoni, come Gene Clark o Roger Mc Guinn, appaiono un po’ stanchi.
Proprio per questi motivi, non so non provare imbarazzo di fronte a un album come questo Storm Windows. Tutto sembra funzionare perfettamente: arrangiamenti lineari, quasi da manuale, neppure una virgola fuori posto, chitarre e steel tirate a lucido, rock tiratissimi e dolci ballate, testi malinconici ma non banali… e allora? Manca il feeling, manca il calore. La stessa foto di copertina, che mostra un John Prine un po’ ingrassato, mette tristezza. Dopo ascolti ripetuti, alla ricerca di qualche pregio nascosto, viene da chiedersi cosa abbia spinto Prine a entrare in sala d’incisione. Potremmo rispondere: il contratto con la Asylum, ma saremmo forse troppo cattivi.
E si fa strada, neppure tanto insinuante, una fastidiosa sensazione di inutilità. Tanto più fastidiosa se si pensa che John Prine ci aveva abituato a cose migliori di Storm Windows, e pensiamo a Bruised Orange, e che era stato candidato, anche lui, e suo malgrado come tutti, al titolo di Nuovo Dylan. Un folksinger di tutto rispetto e l’etichetta, una volta tanto, non vuole essere riduttiva. In fondo il suo buon mestiere gli ha impedito di fare un disco catastrofico, gli ha permesso di rifugiarsi nella mediocrità. A noi resta tuttavia il diritto di aspettarci molto di più.
Asylum 280 (Country Rock, Singer Songwriter, 1980)
Giancarlo Susanna, Mucchio Selvaggio n. 35, 1980
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