Due nostre vecchie conoscenze fanno parte dei Mountain Heart, Steve Gulley (voce lead e chitarra) e Barry Abernathy (banjo); spero li ricordiate, erano saliti insieme a Doyle Lawson sul palco del Teatro Delfino di Milano alcuni anni fa, un evento al quale parteciparono appassionati italiani di bluegrass accorsi da ogni angolo del Paese. Era la seconda volta che Doyle Lawson e i suoi Quicksilver venivano a trovarci, la prima risaliva a metà degli anni ‘80, eravamo al Teatro Instabile di Genova, fu una serata magica, passata insieme a Terry Baucom (banjo), Jimmy Haley (chitarra) e Randy Graham (basso elettrico), gli allora componenti del gruppo di Lawson. Altrettanto magica si rivelò la serata al Delfino, ma diversa poiché, rispetto a dieci anni prima, il capobanda aveva dato una sterzata stilistica al tipo di bluegrass proposto, inizialmente influenzato dal rock, in seguito più tradizionale, per quanto comunque moderno nell’approccio.
La stessa scelta di cantare e suonare intorno ad un unico microfono panoramico, come facevano le band negli anni ‘50, creando suggestive coreografie date dai movimenti sincronizzati dei musicisti che si alternavano davanti ad esso per il loro assolo, era parte di quel ritorno al ‘traditional’ voluto da Lawson. Un ritorno avvenuto, coincidenza, in sintonia con molte altre band, a determinare una vera e propria riscoperta generalizzata del ‘vecchio’ suono, tra l’altro premiata dal responso di quella larga fetta di pubblico più tradizionalista, che malvolentieri ha dovuto sopportare l’ondata di freakettoni che, durante i ‘70 e parte degli ‘80, portarono il bluegrass anni luce oltre i suoi originali e caratteristici canoni, inventando nuovi stili quali newgrass, dawg, spacegrass, new acoustic, ecc.
I Mountain Heart sono quindi altri ‘figli’ di Doyle Lawson, insieme ai IIIrd Tyme Out, Blueridge, Carolina e New Quicksilver, giusto per fare qualche nome. Il loro debutto è seguito ad una notevole aspettativa da parte di chi ha avuto la fortuna di ascoltarli live, magari proprio durante quello ‘showcase’ che tennero nel ‘98 all’annuale World of Bluegrass della International Bluegrass Music Association e che li fece conoscere agli ‘addetti ai lavori’.
Andiamo con le presentazioni. Di Gulley e di Abernathy abbiamo già detto. Aggiungo però che Gulley per anni ha intrattenuto il pubblico al noto Renfro Valley Music Park nel Kentucky e che è figlio d’arte, suo papà Don suonava con I Pinnacle Boys (qualcuno lì fuori se li ricorda?) e che Barry Abernathy nel ‘97 si è portato a casa un award come miglior banjoista dell’anno consegnatogli dalla Society For The Preservation Of Bluegrass Music In America. Quest’ultimo, voglio sottolineare, oltre a lavorare per cinque anni nei Quicksilver ha prestato servizio anche nei IIIrd Tyme Out. Jim Vancleve, sorpresa (?), ha suonato anche lui (il fiddle) nei Quicksilver per un certo periodo. E non solo: Rambler’s Choice, Lou Reid & Carolina e Ric-o-chet, un curriculum di tutto rispetto, a soli vent’anni! Anche Alan Perdue, il mandolinista, è stato nei Rambler’s Choice. Johnny Dowdle, che qui suona il contrabbasso, infine, oltre che dei Carolina ha completato le fila dei Santa Cruz di Wyatt Rice. Come possiamo notare, le strade spesso si incrociano…
L’obiettivo della band, come dice il nome stesso del gruppo, è quello di eseguire una musica che tocchi il cuore attraverso canzoni cariche di sentimento: “Se la gente ‘sente’ la tua musica, allora non vi è motivo di etichettarla, personalmente la definisco ‘heart music”’, e ancora, “Noi desideriamo che questa band si riveli l’estensione della nostra condizione emotiva”, e per arrivare a questo, dice Steve, “Suono con persone di cui (…riguardo alle loro motivazioni) ho la massima fiducia.” E tutti questi buoni propositi, è lecito chiedersi, si riscontrano nel loro disco? La risposta è sì. C’è molta onestà in Mountain Heart, si percepisce immediatamente la sincerità del loro rapporto con la musica che eseguono. Professionisti sì, ma col cuore, ‘mountain heart’. Sostenere che “senza alcun dubbio è uno dei debutti discografici della decade attesi con maggior ansia” può forse essere un po’ azzardato, anche se l’affermazione è lanciata dai solito, bravo e autorevole Weisberger, tuttavia vi confermo che si tratta di un gran bel debutto.
La voce di Steve ha un timbro particolare, deve piacere, e al sottoscritto piace molto in alcune occasioni, mentre in altre meno. Se un paio di brani, inoltre, fossero stati eseguiti ad una tonalità più bassa avrebbero a mio avviso permesso al nostro di non raggiungere quasi il limite della sua estensione vocale. Questo è dovuto al fatto di essere nel gruppo il cantante con la voce più alta, quindi nei cori si vede costretto a passare dal lead al tenor. Il suo personale timbro, alto di per sé, già ascoltato mentre esegue la parte lead, continua inevitabilmente a catalizzare l’attenzione durante i ritornelli, quando, come tenor, si ritrova a dover ‘picchiare’ così in alto da far strabuzzare gli occhi all’ascoltatore. Sono comunque dettagli e, in quanto tali, importanti per alcuni, trascurabili per altri. Questo è, davvero, l’unico elemento discutibile che sono riuscito ad individuare ascoltando il CD. Non avessi esposto queste considerazioni, mi sarei ritrovato a parlare soltanto bene del disco, perché sia dal punto di vista della scelta dei pezzi (gli autori disturbati sono: Jack Tottle, Keith Tew, Carl Jackson, Tim Stafford e Vince Gill) che dell’esecuzione (i ragazzi, tutti, sugli strumenti sono a dir poco sbalorditivi, anche quando cercano di non farlo notare) Mountain Heart è un Signor Debutto. Non lo aspettavo con ansia da dieci anni (con tante scuse a Jon Weisberger) ma rimane, anche per me, una stupefacente opera prima.
Doobie Shea CD 4002 (Bluegrass Moderno, 2000)
Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 52, 2000