Norman Blake – Nashville Blues cover album

Spesso mi ripetevo che l’unica cosa certa circa il prossimo nuovo disco di Norman Blake sarebbe stata, se fosse uscito per l’etichetta Rounder, il numero di catalogo, 0188, proseguendo in una frivola (o forse no) tradizione pitagorica ormai consolidata (c/o The Rising Fawn String Ensemble, 0122; Full Moon On The Farm, 0144; Original Underground Music From The Mysterious South, 0166). Così è stato, ma le certezze si sono fermate a questo punto.
Nashville Blues sembra un lavoro la cui ispirazione sia rimasta ibernata per quattro/cinque anni ignorando totalmente le ultime esperienze ed albums tanto coraggiosi quanto accolti dalla critica schierata su due fronti estremi. Undicesima prova nella carriera dell’artista, persa per strada almeno la metà dell’Ensemble, recuperato qualche vecchio amico (Charlie Collins, James Bryan), il disco segna il ritorno di Blake verso la pura tradizione sud-orientale, al suono prodotto da una string band quantitativamente essenziale, alla chitarra solista usata con parsimonia per sottolineare passaggi suggeriti o lasciati a mezz’aria dalla voce, a testi autografi (una ballata e una canzone) che potrebbero benissimo risalire all’epopea dei primi LPs.

Nell’intera discografia di Blake Nashville Blues è forse l’album dove le parti vocali hanno più rilievo e fanno da perno intorno a cui ruota tutto quanto. Basta dare un’occhiata ai titoli, ancora prima di porgere orecchio ai solchi, per accorgersi che la riproposta di una qualsiasi inflazionata Streamlined Cannonbal o Nobody’s Business richiede un’enorme dose di mestiere, moltissima arte ed un amore infinito per non cadere nella più bieca imitazione e nella banalità. Le basi di partenza si chiamano Clarence Ashley, Alton e Rabon Delmore, ed una moltitudine di musicisti anonimi; l’ostacolo da superare è Doc Watson, quello acustico della North Carolina.
L’operazione riesce a meraviglia. A molti brani tradizionali è riservato un trattamento cui non erano abituati, e non eravamo abituati, da tempo: strumenti al posto giusto nel momento giusto, perfetto amalgama sonoro, soprattutto nessun stravolgimento da velleità modernistiche (per quest’ultimo aspetto il test è rappresentato da My Name Is Morgan, fedelissima, originale e rara riedizione della Bill Morgan & His Gal incisa nel 1931 da Buster Carter e Preston Young).

Il suono del gruppo, presente in svariate combinazioni, compreso un banjo tenore nelle mani del campione di lungo corso Mick Moloney, rappresenta una grossa novità: non più raffinato e in punta di piedi, ma schietto e vigoroso, decisamente più naturale. Non si è passati certo, brevi manu, dall”otm da salotto’ alla gigioneria dei violinisti georgiani, ma ad una via di mezzo, ad una perfetta sintesi che non può che giovare ad un lavoro del genere.
Nashville Blues – senza ombra di dubbio un ponte ideale appena gettato tra Home Again di Watson e Church Street Blues di Tony Rice – si rivelerà una gigantesca (anche se probabilmente momentanea) delusione per i nuovi amanti dell”original underground music’, ma certamente riempirà di gioia coloro che credevano di aver perso per sempre il Blake musicista alle prese con una tradizione viva e alla luce del sole.

Rounder 0188 (Country Acustico, Old Time Music, 1984)

Pierangelo Valenti, fonte Hi, Folks! n. 8, 1984

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