O Brother Where Art Thou

– Fratelli Coen: basta la parola. Se ogni loro film diventa un evento, non solo a Cannes dove fu presentato in anteprima mondiale, ci sarà pure un motivo? Magari è la pasta speciale del cinema che Joel & Ethan fanno sin dai tempi di Arizona Junior: americano fino al midollo, e insieme capace di parlare a tutti, ai cinefili e ai nostalgici, in una sorta di sincretismo creativo dal retrogusto burlone, colto e popolare insieme.
Fratello Dove Sei? non fa eccezione. Si temeva fosse un film di sicuro insuccesso: chi va a vedere nel 2000, pronosticò qualcuno dell’ambiente, una storia con quel titolo oscuro, ambientata durante la Grande Depressione, infarcita di musica country, neanche tanto divertente e ispirata all’Odissea?
C’era George Clooney, vero, ma il divo hollywoodiano, bravo, eclettico e intonato alla parte, non è di per sé una garanzia commerciale (basterebbe vedere com’è andato in Italia Three Kings). E invece, pur senza fare sfracelli al botteghino, il film s’è costruito una sua nutrita pattuglia di aficionados anche in Italia, dove è rimasto in cartellone per qua1che mese, beneficiato dal passa parola e dall’affetto crescente anche di chi non ama la musica country .

Il titolo originale, O Brother Where Art Thou? è inglese antico, shakespeariano, e sta appunto per Fratello, Dove Sei?. Ma è anche un ironico omaggio al vecchio film di Preston Sturges, I Dimenticati (1941), dove un regista progressista lavorava proprio a un lungometraggio di impegno sociale con quel titolo pomposo, non capendo che proprio quando le cose vanno male anche tra gli ultimi della terra rinasce un gran bisogno di sorridere (oltre che di mangiare, s’intende).
Non c’è retorica, invece, in questa reinvenzione sudista dell’Odissea: siamo infatti nel Mississippi, anno 1937, dove un narratore cieco sulle rotaie (Omero?) invoca la Musa per raccontare la storia di Ulysses, Pete e Delmar (rispettivamente Clooney, Nelson e Turturro).
In fuga dai lavori forzati con la divisa a righe e le catena che li tiene uniti l’uno all’altro, i tre intraprendono un avventuroso viaggio di ritorno punteggiato da imprevisti: un cugino impoverito dalla Crisi li denuncia alla polizia, tre sensuali ragazze (le sirene?) li seducono in riva al fiume e li lasciano tramortiti, un bieco venditore di Bibbie con un occhio solo (Polifemo?) li deruba, un politico senza scrupoli cerca di ingaggiarli come quartetto musica1e (i Soggy Bottom Boys, ‘I culi traballanti’) per la propria campagna elettorale, eccetera eccetera.
E mentre la moglie di Ulysses, Penny (Penelope?), medita di risposarsi, il terzetto inciampa nel folle rapinatore di banche George ‘Babyface’ Nelson e salvano dalla forca del Ku-Klux-Klan (scena in forma di musical, atroce e divertente insieme) il loro amico nero Tommy, ricalcato sulla vera figura del bluesman Robert Johnson.

In un continuo gioco di riferimenti al periodo della Grande Depressione (incluso Furore di John Ford, ma si cita anche Gangster Story e Il Mago Di Oz), O Brother Where Art Thou? sfrutta coloristicamente i maestosi paesaggi rurali tendenti al giallo, sottraendosi volentieri al ritmo cadenzato del cinema di fuga. Ogni stazione del viaggio verso casa serve ai Coen per comporre il ritratto di un’America feroce e immiserita, preda di politici voltafaccia, che sembra uscire da una foto ingiallita di quegli anni o da un romanzo sudista. Poi, nel finale, il tocco surreale ‘alla Coen’ si impone con quell’inondazione pilotata dall’uomo (serviva alla nascita delle centrali elettriche) che trascina sott’acqua uomini, cani, oggetti, perfino un banjo, quasi a suggerirci la fine di un’epoca e la nascita dell’America ‘moderna’.
Meno travolgente e folle degli ultimi film della coppia, Fratello Dove Sei? sfodera un andamento picaresco in linea con un morbido-indolente accento sudista sgranato dagli attori (purtroppo totalmente perso nel pur buono doppiaggio italiano).
Tutti bravi, dalle facce e dai gesti credibili, a partire dai tre protagonisti. Se John Turturro e Tim Blake Nelson incarnano l’incazzato cronico il sempliciotto soave, George Clooney – capello impomatato e baffetti alla Gable – fa del suo Ulisse un eroe maldestro e gentile, un ‘pater familias’ dall’eloquio forbito subito risucchiato dalla sua Penelope nel più matriarcale dei menage familiari.
– Già con Arizona Junior avevano reso omaggio al suono festoso e iterativo del banjo, ma stavolta hanno fatto di più: O Brother Where Art Thou?  (Mercury Records) è un autentico monumento al bluegrass, ovvero il progenitore acustico della country music.

Chissà se passerà per il film dei Coen la rivalutazione politica di una forma musicale ‘all american’ considerata reazionaria o giù di lì da una certa vulgata progressista. I due estrosi fratelli-cineasti non ci stanno, e lo dicono alla loro maniera: ricreando in studio, sotto la guida del cantautore T. Bone Burnett, una manciata di canzoni che sembrano uscire da una registrazione di fine anni Trenta. Un po’ come succedeva in Honky Tonk Man di Clint Eastwood, brani tradizionali e motivi scritti per l’occasione sono stati incisi con scrupolo quasi filologico, per restituire l’aria del tempo.
Naturalmente, con l’eccezione di Tim Blake Nelson, non sono gli attori a cantare: nel brano che fa da motivo conduttore del film, il trascinante Man Of Constant Sorrow, è il mandolinista Dan Tyminski a fare la parte di Clooney, il quale, pure intonato, non s’era sentito all’altezza del cimento. Vale anche per John Turturro, che si esibisce con barbona finta alla ZZ Top nello spassoso yodel (post-sincronizzato da Pat Enright) In The Jailhouse Now.
Sono una ventina i brani messi a punto per la colonna sonora di O Brother Where Art Thou?, e vi figurano classici come Keep On The Sunny Side (rifatta dalle sorelle White) e gospel bianchi come Down To The River To Pray (eseguito da Alison Krauss, con Maura O’Connell e Tim O’Brien nel coro): suonati da un nutrito gruppo di musicisti nel quale compaiono il chitarrista Norman Blake, il violinista John Hartford, il dobroista Jerry Douglas (pure attore nel concerto finale), il cantante Alan O’Bryant, insieme a tanti altri. Insomma la cosiddetta crema di Nashville, incluso l’ottuagenario Ralph Stanley, al quale forse non avevano detto che il suo cupo gospel O Death sarebbe finito in bocca al mortifero capo del Ku-Klux-Klan che sta per impiccare l’amico negro dei tre galeotti in fuga.

Michele Anselmi, fonte Country Store n. 55, 2000

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