Silvio Ferretti banjo mandolino chitarra dobro pick up legni action materiali e tensioni

Rubo lo spazio a Martino e alla sua rubrica ‘On Stage’ perché mi coglie l’uzzolo di trattare un argomento tipicamente da palco: il dibattito, oggi discretamente ‘di moda’, sui pro e contro dell’usare un solo microfono per amplificare un gruppo, in alternativa all’oggi ‘classico’ uso di più microfoni. Chi ha assistito ad un concerto di Doyle Lawson & Quicksilver in anni recenti, non può non essere rimasto colpito dalla coreografìa dei musicisti attorno ad un solo microfono, e dal perfetto equilibrio di voci e strumenti in un mixaggio del tutto naturale. E chi di voi suona, e compare più o meno spesso su un palco davanti ai soliti otto o dieci microfoni, non può non avere sperimentato il brivido dei larsen lancinanti sul coro migliore, la frustrazione dei monitor che vi fanno sentire solo quello che non volete, la nausea poco controllabile data da suoni che di naturale non hanno niente, e naturalmente l’incazzatura graziosamente donata da un sedicente fonico che, dopo averti detto che non senti il tuo mandolino solo perché è uno strumento con poco volume (un Andersen, magari!), di fronte ad un marasma di suonacci e fischi atroci riesce solo a sollevare le mani al cielo. Parliamone, di questi problemi.

In origine (origini del bluegrass, naturalmente) si usava un solo microfono, al massimo un paio, e se i microfoni erano più di uno li trovavate comunque ammucchiati al centro del palco. I monitor non esistevano, e i musicisti bluegrass erano uomini veri, anche le donne, abituati (perché costretti) a tirare fuori bel timbro e grosso volume da voci e strumenti. Nei primi anni dei monitor gente come Ralph Stanley si allontanava dal microfono quando si sentiva uscire da quelle casse… Questa era la tradizione, anche se obbligata, e se si vuole a tutti i costi aderire alla tradizione la via da seguire è questa: tutti attorno ad un microfono, possibilmente non direzionale, ognuno con l’idea ben precisa delle distanze da tenere dal microfono nei vari momenti e del volume da tirare fuori, e con un orecchio attento ad ascoltare gli altri direttamente, senza monitor (o spie che dir si vogliano).

Molti i vantaggi: teoricamente, e ciò significa “se nessuno suona tanto forte da sovrastare gli altri”, tutti i suoni sono più udibili sul palco, e naturalmente equilibrati; di conseguenza è molto più facile cantare cori intonati ed uniti, nessuno schiaccia gli altri col proprio suono (banjoisti, ascoltate!), ed esiste la possibilità di comunicare meglio (a voce o con ‘body language’) all’interno del gruppo. Altri vantaggi: ci si porta dietro meno roba (aste, valigette, cavi), e si monta l’amplificazione in meno tempo; meno microfoni significa meno rischio di feedback (cioè rientro nel microfono del suono proveniente dalle casse, con la ben nota conseguenza dell’effetto larsen, leggi ululato o fischio o rombo che sia); ancora, non avete sedicenti fonici che rovinino il vostro show tocchignando volumi, timbriche e livelli vari, dato che siete voi a crearli. E la coreografia! Ah, i musicisti che si avvicinano al microfono per l’assolo, e se ne allontanano elegantemente, con passi quasi di danza… Proprio come Flatt & Scruggs… Sì, be’, quasi…

Vediamo di parlare degli svantaggi prima di lasciarci prendere dall’entusiasmo e svendere tutti i nostri SM-57, va’. Perché svantaggi ce ne sono, eccome!

Andiamo per ordine: la ragione di base di ogni amplificazione è consentire al pubblico di udire la musica, se possibile in tutte le sue più raffinate nuances dinamiche e timbriche, quindi dobbiamo chiederci: un solo microfono ci mette in grado di farci sentire? Pensate al concerto di Milano di Doyle Lawson: tutto perfetto in prima fila, ma in fondo il volume era così basso che una conversazione a voce normale poteva coprire le musica. Doyle sostiene che in alcuni festival il loro suono era addirittura troppo forte, ma mi permetto di non credergli: avendolo visto a Owensboro so che il suo volume, specialmente in esterni, è più basso di quello degli altri gruppi, e Del McCoury, che veniva dopo di lui, aveva un impatto da Deep Purple al confronto… (Ah, a quanto pare ora anche Del lavora con un solo microfono, quindi forse loro se ne fregano…).

In ogni caso il volume di una band con un solo microfono è inferiore ‘di natura’ a quello di una band con microfoni individuali per voci e strumenti, e la ragione è semplice: il volume totale che esce dalle casse dipende (oltre che dal massimo volume in grado di non creare feedback, quindi da quanto bene sono disposte le casse), soprattutto dal volume della musica che entra nei microfoni, e questo è funzione della distanza di voci e strumenti dai microfoni. Ciò significa che un sistema di amplificazione di questo tipo può essere perfetto per un club, un piccolo teatro o un auditorium con acustica perfetta, ma è poco proponibile in un teatro più grande, in un club chiassoso, o diononvoglia in un palco all’aperto, dove i volumi delle casse devono per forza essere sparati.

Considerate anche che in queste situazioni negative, peraltro assai più frequenti per noi comuni mortali di quelle ‘ideali’, vengono compromessi (quantitativamente e qualitativamente) anche i vantaggi dell’ascolto diretto fra musicisti e dell’assenza di feedback (che con volumi alti o casse vicine può diventare inevitabile anche in assenza di monitor). E consideriamo anche, dato che la qualità del suono è essenziale, alcune necessità ‘scomode’ derivanti dalla scelta ‘one mike’: se il microfono deve raccogliere suoni da più fonti, diciamo circa da 120 gradi, non può essere il classico microfono dinamico e cardioide, cioè molto direzionale, e non troppo sensibile, peraltro il tipo di microfono di uso più comune e prezzo (solitamente) minore.

Con uno Shure SM-57 non potrete mai imitare Flatt & Scruggs o gli Stanley Brothers, scordatevelo. Perdipiù il suono che ottenete da un microfono dinamico e direzionale peggiorerà in modo evidente, cioè si svuoterà di bassi e medio-bassi, man mano che aumenta la distanza dal microfono di voci e strumenti. La qualità se ne va in malora. Un bel microfonone a condensatore, un dinamico ma omnidirezionale (cioè in grado di prendere i suoni da 360 gradi) o meno direzionale, può essere in grado di ovviare a questi problemi, ma ovviamente ne creerà altri, in particolare un più elevato rischio di feedback, e la possibilità (in locali piccoli) che le c..zate sparate dal tipo in prima fila si sentano più della chitarra. Il che mi sta bene per certi chitarristi, ma non per la povera band media…

Doyle Lawson risolve il problema usando un microfono cardioide ma a condensatore e di alta qualità, da studio, col suo preamplificatore, e passato per un compressore valvolare, che restituisce in parte le frequenze e il calore persi con la distanza dei musicisti dal microfono. Il feedback è eliminato con un ‘feedback exterminator’, accoppiato ad un equalizzatore automatico, e a questo punto la band sa di poter contare su un suono buono, perché del tutto naturale, su un sound check brevissimo, dato che Dale Perry impiega pochissimo ad assettare il sistema sull’acustica del locale, e su una minima possibilità di avere il concerto rovinato dal solito tecnico etc etc etc. Il costo? Una bazzecola: 5.000 e rotti dollari USA, il che è niente per loro (che ci devono lavorare e vivere sopra), ma può essere proibitivo per chiunque di noi. Sbaglio?

Alcuni anni fa noi (Red Wine) siamo stati costretti a lavorare con un solo microfono: il palco era di 2 metri x 2, e non c’era posto (sul palco o davanti ad esso) che per una sola asta. Va da sé che in quel caso non si parlava di ‘coreografie’, ma l’usare un microfono era la sola soluzione proponibile. Così ho montato su un’asta il mio Stedman N-90, dinamico-ma-quasi-da-studio, piazzato ad altezza bocca mia o poco sotto, e tramite astina e tubo flessibile ho aggiunto (più in basso) un Nakamichi a condensatore, omnidirezionale ma ‘duro’ e resistente al solito feedback. Sensibilità alta per tutti e due i microfoni, con gain a stecca, un po’ di reverbero, e il minimo di movimento consentito a noi quattro su quello che eufemisticamente si chiamava palco ci permettevano di farci sentire degnamente e con un suono civile. Precisazione: il locale era piccolo, tranquillo, con acustica non male, e con la possibilità di disporre correttamente le casse. Dopo una settimana di ‘one mike’ eravamo decisi a vendere tutti gli altri microfoni per comprarne uno più adatto alla nostra nuova situazione, lanciatissimi e già preparati (anche se non bene) a muoverci in modo da non ucciderci a manicate alla fine dei break.

Poi ci siamo trovati in un locale più grande, dove abbiamo fatto la gara dei decibel col pubblico per due ore, e siamo quindi in seguito tornati ad una sistemazione qualitativamente spesso meno soddisfacente, ma più ‘aggressiva’ nei decibel (leggi: impatto), quindi purtroppo necessaria. Escono Flatt & Scruggs, entrano considerazioni terra-terra (“Non ho sentito una nota che fosse una, ma mi hanno detto che siete bravi”), e l’estetica non la spunta sul ‘mercato’… Ed è spesso il mercato a dettare legge, anche se nel massimo rispetto per la qualità della musica.

Band come Blue Highway o Lonesome River Band lavorano a volumi notevolmente più elevati di quelli di molte altre band, e l’impatto che hanno loro le altre band non se lo sognano. Idem per Alison Krauss, che di successo se ne capisce, e vi sto parlando di band che hanno un suono esagerato per uno spettacolo di qualità altissima, sempre nell’ambito del bluegrass.

I New Grass Revival erano un’altra cosa, come sono un’altra cosa (in senso quasi opposto) Doyle Lawson & Quicksilver. L’importante è sempre avere un buon suono.

Conclusioni (mie): fate quello che volete, ma abbiate le idee chiare sin dall’inizio. Se scegliete il sistema ad un solo microfono (o simile) fatelo con l’attrezzatura adeguata, sapendo che potrete avere problemi di volume, che potrete non avere lo spazio per l’aspetto coreografico, e che forse il pubblico non capirà perché mai vi affolliate attorno ad un microfono (“Mah, si vede che se ne possono permettere di più, poverini!”), oltre al fatto che dovrete prepararvi accuratamente per distanze, volumi etc.

Se scegliete di usare i soliti microfoni multipli, uno per fonte sonora, tentate di comprarli buoni e ‘giusti’ per il vostro strumento (oltre che robusti e resistenti al feedback), e possibilmente fate in modo di portarvi dietro un vostro mixerino, che vi dia un suono costantemente buono, un paio di monitor, e perché no un reverbero: insomma, non fidatevi di quello che passano i vari locali, a meno che non li conosciate bene.

La vecchia volpe ha parlato, ma se avete domande, obiezioni, critiche o che altro non esitate a scrivere a Country Store. Dopo circa 20 anni passati con strumenti acustici davanti a microfoni, forse sono in grado di dire la mia su come usarli, o almeno di discuterne a ragion veduta… Coraggio, è tutto gratis!

Silvio Ferretti, fonte Country Store n. 37, 1997

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