Ray Wylie Hubbard - Growl cover album

Una serie di album, dal celebrato Loco Gringo’s Lament, ha rivalutato, dagli anni ’90, questo ‘cavaliere folk texano’ nato però in Oklahoma. Curioso che uno dei più grandi autori ed interpreti della musica texana, cosa universalmente riconosciuta, soprattutto a livello di critica, non sia un ‘nativo’. Da anni abbiamo sottolineato questa resurrezione artistica, che corre in parallelo, metaforicamente, a quella umana, e testimoniata da opere come Lost Train Of Thought, Dangerous Spirits, Live At Cibolo Creek, sino ad arrivare ai più recenti Crusades Of Restless Knights e Eternal & Lowdown. Dischi che hanno bilanciato gli anni bui di questo impareggiabile folk-singer di matrice honky-tonk e trovano pochi uguali tra quelli dei suoi colleghi.
Growl, al pari di Eternal And Lowdown, è un altro album di grande spessore, un’opera che riprende il lento ma instancabile cammino artistico di un’anima inquieta che sembra ansiosa di raccontarci quello che succede al di qua ed al di là della vita. Spiazza, come nel lavoro precedente, chi l’immagina solo come un folk-country artist contemporaneo, una delle personalità più intelligenti, vere ed oneste dell’attuale scena cantautorale.
Ray Wylie Hubbard, una delle figure più rappresentative del tanto favoleggiato progressive country-movement in Texas, dopo aver scoperto la national-steel ed il blues, in Growl continua il viaggio in questa dimensione musicale.
Con la produzione affidata ancora una volta a Gurf Morlix, Hubbard ci offre il suo album musicalmente più corposo, solido, e ricco di songs che hanno sapori blues, brucianti sonorità southern, nere e roots, brani rock a lenta combustione, come si ascoltano a Memphis grazie a J. J. Cale ed ai suoi epigoni. E’ ufficiale, la nuova musa è il Mississippi e i territori musicali che questo fiume bagna.

Il blues e rock-ballads con radici nel fango primordiale della musica americana, musicalmente più solide e dinamiche nella struttura, rispetto al country-folk oriented sound delle produzioni anni ’90; che, cantate con la caratteristica voce, dolente ed espressiva, contengono tutti i luoghi topici del suo universo letterario, filosofico e teologico. L’immagine da noi creata, semplicistica quanto suggestiva, di un allegorico Hubbard, visto come uno stagionato cow-boy in jeans alla Willie Nelson nelle vesti di Dante Alighieri, che ci guida a visitare un inferno post-moderno, sembra esser stata raccolta dalle note di copertina di quest’album.
Le sue laconiche e provocatorie osservazioni, che in poche parole mettono alla luce i demoni che sono in noi, che dipingono magistralmente i labili confini tra il bene ed il male, sono una sfida al fato con il quale continuiamo, nonostante tutto, a lottare ad armi impari. Sì, il grande nemico che non abbiamo ancora sconfìtto, o identificato, siamo noi stessi. Hubbard sembra saperlo e suggerirlo attraverso i testi delle sue canzoni.
La canzone d’autore, ritmata e bluesata fin che si vuole, baciata da un guitar slide sound (national steel e chitarre) semplice ed essenziale che egli ci regala, è un nuovo, lungo ed affascinante viaggio nel territorio dello spirito.
Gurf Morlix, chitarre e basso, Rick Richards, batteria, sono i side-men di un RWH che si esibisce prevalentemente alla resonator guitar e, qualche volta, all’acutsica o all’elettrica. Non mancano ospiti illustri, a cominciare da Buddy Miller, chitarra elettrica in un’epica ballad come Knives Of Texas, che apre l’album come una promessa. “Se avessi ali di poeta, volerei a New Orleans” canta il nostro eroe. E grazie a queste ali ci mostra ben più di un paesaggio southern, dove incastona altrettante storie.
In Growl prevalgono i momenti intensi e drammatici, ad alta intensità emotiva, ma scherza in Name Droppin’ dove scherza in ogni strofa sui nomi degli strumentisti presenti: Joe Dee Graham, Darcie Deaville, Scrappy Jud Newcomb, e Mary Gauthier, in un brano che sembra voler stemperare i toni drammatici, duri e crudi delle altre songs (Rock & Roll Is A Vicious Game, Stolen Horses e Screw You, You’re In Texas).
Il sound di Growl, pur se centrato su un delicato slide-guitar sound che contrasta la potente e drammatica voce del protagonista, è sublimato dalla possente ritmica. Una ritmica che sembra sottolineare i significati di racconti morali dove anche il diavolo ha il suo dovuto. Ogni tema, grooves e riffs sembrano oliati ed ingrassati a dovere per una frittura d’anima, peccato e redenzione tipicamente southern. Un personaggio musicalmente sempre più eclettico e, culturalmente, intrigante.

Philo PHCD 1237 (Singer Songwriter, 2003)

Franco Ratti, fonte Out Of Timen. 42, 2003

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