I Seldom Scene mi mandano in crisi ogni volta che incidono un album: ogni volta sembrano abbandonare la strada tracciata in precedenza per esplorare territori che sembrano loro estranei, i loro inserimenti strumentali (vedi batteria, pedal stee!, basso decisamente elettrico, armonica) sembrano stridere con le sonorità vellutate degli usuali strumenti, il contrasto fra la loro immagine su vinile e quella, purtroppo poco ascoltata per ovvie ragioni, dei concerti dal vivo sembra troppo violento, e ogni volta mi scopro a riascoltare il nuovo discutibilissimo album per la centesima volta, mi accorgo che una certa sonorità, che al primo ascolto mi sembrava troppo azzardata, è ora familiare, che ciò che avevo giudicato inutilmente sperimentale sembra dopo un po’ quasi tradizionale, o almeno ‘tradizionalmente Scene’, e così via. Con un risultato sgradevolissimo di ‘spiazzamento critico’ che non può che farmi meditare amaramente sulla caducità dell’umano giudizio e, in particolare, sulla volubilità dei miei gusti.
Come all’uscita del New Seldom Scene Album stavo nella schiera di coloro che azzeravano il volume per tre minuti alle prime note di California Earthquake, per diventare poi innamoratissimo del pezzo in questione, così ora potrei mettermi tra i ‘mouldy figs’ (tradizionalisti ad oltranza) che sparano a zero sull’armonica, la batteria e l’inserimento di un pezzo di Jackson Browne in At The Scene, ma so già che fra un paio di settimane potrei rimangiarmi i miei giudizi e le mie critiche.
At The Scene è una strana cosa, molto country, un po’ anche Nashville-acustica nell’uso di strumenti come ‘high-strung guitar’ e armonica, apparentemente commerciale in modo sfacciato ma in realtà molto più sofferta di quanto possa sembrare (e le mie parole d’introduzione ne sono la prova più evidente, e credo a buon diritto che non saranno molti i tradizionalisti pronti a ‘capire e perdonare’… ). At The Scene è anche una cosa bella, gradevolissima da ascoltare e in fondo facile da ricordare, anche se non ‘facile’ né banale nella forma e nella sostanza. E’ un album diverso dai precedenti, anche se accostabile per molti versi (e per il tipo di atmosfere) al New Seldom Scene Album di ben sette anni fa (corsi e ricorsi storici… ), ma è anche un album ‘tipicamente Seldom Scene’, come ogni tanto amo dire, con tutte le caratteristiche del suono dei Scene, caratteristiche vocali, strumentali e di arrangiamenti.
At The Scene è molto poco bluegrass. come del resto tutta la musica dei Scene al di fuori del palco: ‘Harvey’ (il banjo di Ben Eldridge) può sfogarsi a cantare felice nel linguaggio che gli ha insegnato papá Scruggs solo in un pezzo, Born Of The Wind, per il resto è usato (bene naturalmente) come piccolo pezzo di un mosaico che di Scruggs ha poco (o di Monroe, o dei vecchi Country Gentlemen, o del bluegrass in genere).
At The Scene ha qualcosa che non mi va giù: la voce aspra di Duffey in un finale (le sigarette cominciano a farsi sentire, ipotizza qualcuno, e non è escluso che abbia ragione): l’uso della batteria, anche se molto discreto e non pesante, anche in pezzi che vedremmo meglio ‘al naturale’ come in Open Up The Window, Noah; l’armonica, strumento che già ha fatto abbastanza danni al bluegrass, e che vedremmo volentieri tenuto lontano da banjo, mandolino e ‘high lonesome sound’.
Ma devo ammettere che At The Scene ha molti più lati positivi che negativi (siamo al decimo ascolto, a occhio e croce, badate bene), nella classe con cui è proposto un pezzo non eccessivamente country come Jamaica Say You Will di Jackson Browne, nei cori da pelle d’oca di Peaceful Dreams, Winter Wind, nella sempre più sorprendente abilità strumentale dei nostri cinque amici, e nella capacità che costoro hanno di costringermi ad ascoltare e, ormai devo dirlo, apprezzare un album che, maledizione, al primo ascolto non mi piaceva!
Sugar Hill SH-3736 (Bluegrass Moderno, 1983)
Silvio Ferretti, fonte Hi, Folks! n. 5, 1984
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