A pochi mesi da Nuclear Sky, raccolta pubblicata dalla stessa Demon con brani presi in egual misura da Industrial Days (’91) e da Unreal City (’93), e con quattro alterna-takes presi da Tales From The Underground, pubblicato sempre dalla sua label, la Nebula, nel ’95, ritroviamo uno dei songwriter più promettenti e carismatici degli anni ’90.
Dead South, ancora un titolo denso di significati, evidenzia la natura di ‘loner’ di questo folk-singer bostoniano trapiantato a Nashville dopo mille peregrinazioni per gli States. Solitario di nome e di fatto, e le songs di Dead South, più asciutte, scarne ed essenziali che mai, sono un crudo grido di dolore, rabbia e passione. Tom Ovans fa tutto da solo: canta, suona chitarre, mandolino, armonica e percussioni. Nel drammatico brano d’apertura troviamo la voce della sua compagna, LouAnn Bardash, in alcuni brani il basso di Robb Earls o Bob Kommersmith, in uno solo la batteria di Allen Lowrey.
Qualcuno ha scritto che Tom Ovans “sembra la materializzazione del sogno segreto di un dylaniano incallito”, niente di più vero anche a posteriori. L’uomo che è arrivato a Nashville, dopo molto tempo passato al Greenvich Village, nel periodo di punk imperante, a New York City, ha portato con sé un proprio folk-rock, vissuto, duro ed asciutto, da lasciare sempre il segno per la sua incisività, per gli accenti aspri ma molto musicali della sua grande musa: il Dylan degli anni sessanta.
Dead South ne è la dimostrazione più pura ed essenziale. Un’opera viscerale, scevra da qualunque concessione o compromesso, di non facile approccio. Chi è già sintonizzato sul battito del suo cuore, non farà fatica ad abituarsi all’innovativo ed essenziale incedere.
Chi ama le emozioni vere e dirette, non mediate nella loro crudezza, se ne innamorerà ascolto dopo ascolto. Nella sua musica come nei suoi testi, amari e disincantati ma ancora riallacciati ai grandi temi sociali e culturali dei sixties, identifichiamo Dylan, ma anche molti dei suoi epigoni, dichiarati e non, dell’ultimo ventennio.
Tom Ovans è latore di una musica intelligente ed ambiziosa, musicalmente fuori dal tempo: forse per questa ragione è ancora costretto ad autoprodursi, riuscendo così a mantenere intatto il suo personalissimo feeling, la purezza che caratterizza Dead South. Suona ancora una volta folk-blues come un personaggio dei sixties, ma la vena e la rabbia dylaniana non si stemperano in un potente ed elettrico rock-sound, diretto e pieno di forza, come nei precedenti albums.
Solo l’autobiografica ed apocalittica The Folksinger si avvicina agli arrangiamenti degli albums precedenti. La reincarnazione di un folk-hero dei sixties vivo e vitale, nel pieno delle forze ed all’apice delle capacità espressive-creative, combatte prevalentemente con le stesse solitarie armi dei suoi avi dei sixties: chitarra, voce e armonica (Pray For Me). La sua voce ha una timbrica secca e metallica, sembra scandire parole dure ed affilate che devono scalfire l’indifferenza, spazzare via i luoghi comuni, sferzare al banalità. L’impatto sonoro della musica, unito alla vena poetica dei testi di questo songwriter, è spesso stupefacente e Dead South ne evidenzia ancor di più la dimensione strettamente cantautorale di un interprete-autore.
Folk-rock di gran classe dunque, con sapide reminiscenze blues, Rita, Memphis & The Blues, rivisitato in chiave acustica, ma che non disdegna performances elettriche dure e taglienti. Solitaria e pura, la voce di Tom percorre apocalittici e disincantati capolavori (Exile, la lunga In The Rain), songs dirette e toccanti come difficilmente è dato di ascoltare. Chitarra, voce, armonica, il personale ed appropriato uso delle percussioni, fanno parte della canzone, sempre più difficile da sopportare.
Dylaniano nel corpo quanto nello spirito, Ovans canta ancora la pioggia che cancellerà le lacrime, la solitudine come una sorta di dolore universale che tutti accomuna. La speranza di cambiare, negli anni ’90, sembra svanita, nelle sue songs si sentono i dolorosi sospiri di personaggi arresisi al loro destino. Con Dead South, Tom Ovans si ritaglia un ambizioso ruolo di folk-singer revivalist, ma non certo in modo banale, stereotipato o poco originale. La partecipazione emotiva, l’espressiva voce, il lirismo, la grintosa passionalità, la vitalità, la voglia di scrivere ed arrangiare nuove storie, lo distinguono dai numerosi epigoni dei grandi del passato più o meno prossimo.
Non c’è molto che possiamo aggiungere su questo cantautore, non più di quanto possa offrire un semplice ascolto.
Demon 797 (Folk, 1997)
Franco Ratti, fonte Out Of Time n. 23, 1997
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