L’interpretazione dei significati più profondi del blues dipende da una varietà infinita di fattori: la conoscenza delle basi musicali, l’appartenenza geografica e culturale, il carattere specifico. Come è logico e assodato, ognuno vive il blues a modo suo, solo che è meraviglioso scoprire come lo vive Wynton Marsalis.
In Come Il Jazz Può Cambiarti La Vita (Feltrinelli), un’introduzione colta, ironica e brillante all’idea in sé del jazz («E’ l’arte di negoziare le variazioni con stile»), dedica al blues una nutrita serie di puntualizzazioni che meritano sempre di essere lette e rilette. Dal suo punto di vista dei legami tra blues e jazz trascende gli aspetti musicali ed estetici, che poi sono stati riconosciuti e analizzati in dettaglio: i passaggi armonici, l’essenza del ritmo, il groove, lo swing, le primordiali radici africane e caraibiche restano sullo sfondo.
Sono lì, inevitabili, connotati con il concetto stesso di America: «Il jazz ci chiama a impegnarci per la nostra identità nazionale. Dà espressione alla bellezza della democrazia e della libertà individuale e alla scelta consapevole di accogliere il carattere umano di tutti. E’ esattamente quello che la democrazia americana dovrebbe essere».
Il condizionale è lo swing, quel tratto variabile che rende unico e inimitabile il flusso che va dal blues al rock’n’roll e ai suoi derivati. Per Wynton Marsalis, a cui va riconosciuto anche il coraggio di divagare con una certa arguzia, rappresenta qualcosa di più: «La nostra attuale mancanza di rispetto per lo swing può essere paragonata allo stato attuale della nostra democrazia. Si richiede equilibrio per reggere qualcosa di tanto delicato come una democrazia.
Perché il potere sia efficace è imprescindibile l’accortezza di mantenerlo unito e saperlo condividere con altri. Se viene meno questa comprensione, allora è battaglia per vedere chi è il più forte, chi parla più forte, chi si fa notare di più». Nel dettaglio, l’associazione con il jazz è evidenziata da John Lewis, compositore e mentore di Wynton Marsalis: «Deve avere lo swing, o tendere allo swing.
Deve contenere elementi di sorpresa e incorporare l’eterna ricerca del blues». La propensione di Wynton Marsalis è volta a cercare aspetti con significati più ampi, più articolati e parte dalla certezza che «il jazz affronta la totalità delle cose, non solo ciò che è giusto o sbagliato. Come il blues, che è la sua anima, il jazz ci parla di quello che è».
La connotazione geopolitica ha un valore di riferimento prioritario e Wynton Marsalis non perde l’occasione di evidenziarla: «L’America è un melting pot, ma lo swing è il nostro ritmo e il blues la nostra canzone. Conosci quello che sei tu».
Questo è uno degli aspetti salienti della percezione del blues attraverso l’ottica di un jazzista come Wynton Marsalis che, proprio come in ogni orchestrazione che si rispetti, ci tiene alla precisione, a far capire bene le componenti caratteristiche del blues, che se, a prima vista, è semplice, istintivo, immediato e sensuale, infilandosi nelle pieghe degli accordi, delle parole è facile perdersi. Questo succede perché, come spiega Wynton Marsalis, «il blues è pieno di metafore, in parole e musica. Se non ci credete, ascoltate Kitchen Man di Alberta Hunter e capirete cosa voglio dire. Il blues è un’arte in cui l’ascolto informato porta al piacere.
E’ come leggere. Se non avete voglia di seguire la trama, di cercare il significato delle parole o comunque di imparare qualcosa, probabilmente la letteratura non fa per voi. Ma se vi impegnate c’è un mondo inesplorato di piaceri e di rivelazioni che aspetta solo voi.
Nel blues e nel jazz, un piccolo investimento da parte vostra in termini di tempo e pazienza vi rende un patrimonio in termini di emozioni e di ricchezze spirituali di ogni tipo, per non dire di quanto vi divertirete». Tutto giusto, e sacrosanto, solo che, preso dall’entusiasmo nell’illustrare Come Il Jazz Può Cambiarti La Vita, Wynton Marsalis deve aver mischiato un po’ le carte nel mazzo, e l’asso che ha tirato fuori forse non è quello di Alberta Hunter, ma di Bessie Smith, visto che è il suo nome che ricorre quando si parla di Kitchen Man.
Può essere che stesse pensando a My Handy Man, partorita dallo stesso autore (Andy Razaf) e nel caso fosse un lapsus, gli va comunque concesso: capita anche nelle migliori famiglie, e comunque, poi, non manca di riservare a Bessie Smith le giuste e dovute attenzioni.
L’esempio vale a ricordare che, siano di Alberta Hunter o di Bessie Smith, «le loro creazioni erano un linguaggio e quando avevi capito il linguaggio non servivano le parole. La canzone era il linguaggio. La canzone è il linguaggio». Questo è il senso straordinario che permea la forma, lo stile, l’espressione tanto che diventa una specie di visione filosofica condensata da Wynton Marsalis in un’aforisma dalla precisione quasi matematica: «Quando accetti il blues, chiunque tu sia, accetti la tua condizione di essere umano».
La proporzionalità è diretta (verso i musicisti) e indiretta (rispetto a tutti gli altri), eppure sempre valida, visto che il blues, come il jazz, come il rock’n’roll, e come tutti i suoi figli è un feeling, uno spirito che parte sempre dalla natura limitata del genere umano, il più delle volte capace di capire le motivazioni della sua esistenza soltanto dagli errori.
Lo stesso jazz nasce da uno scarto ritmico che Wynton Marsalis riesce a spiegare benissimo nelle prime pagine così come si premura di avvisare che «gli sbagli sono utili per stabilire una relazione dinamica con te stesso. Quando ti rialzi da una batosta colossale o da un errore di calcolo di dimensioni imbarazzanti, maturi lo spessore epidermico necessario per proporre ad altri le tue creazioni.
E impari dall’esperienza pratica la differenza tra la teoria e i fatti. Il rispetto per la tua propria creatività, ciò che sei in grado di fare e gli strumenti che hai in mano, è il primo passo verso la crescita inarrestabile della produttività personale». Nello sconfinamento del campo dove si affronta ‘la poetica della vita’ è necessario, per stabilire cosa sia il blues, un livello adeguato alle dissertazioni di Wynton Marsalis. Occorre lasciare i territori conosciuti degli ‘addetti ai lavori’ e affidarsi a qualcuno che il blues lo vede da lontano, e quindi con una prospettiva diversa, più acuta, più sensibile.
Come scrive Charles Simic in La Vita Delle Immagini (Adelphi): «I blues dimostrano la assoluta idiozia di qualunque teoria sul separatismo culturale, che nega la possibilità dell’esperienza estetica al di fuori della propria razza, etnia, religione o addirittura al di fuori del proprio genere sessuale. Come ogni arte autentica, la musica blues appartiene a un luogo, a un tempo, a un popolo specifici, e poi paradossalmente li trascende.
Il segreto di tale trascendenza sta nella tonalità minore in cui è scritta quella musica e nella poesia della solitudine che esprime. La poesia lirica è strettamente imparentata con il blues. Il motivo per cui scrivono poesie liriche e si scrivono blues è che la vita è breve, dolce e transitoria.
Il blues testimonia la singolarità del destino di ciascun individuo. Comincia senza parole, con un gemito, un piede che batte per terra, un sospiro, un motivo accennato a mezza voce, e quindi cerca le parole per quel qualcosa che non ha nome in nessuna lingua e di cui tutta la poesia e tutta la musica cercano un’approssimazione».
Guarda caso, Charles Simic (che è un grande poeta) cita sia Bessie Smith, sia Alberta Hunter (ma anche Sippie Wallace, Ida Cox, Victoria Spivey) e non è una coincidenza con i richiami di Wynton Marsalis, perché è nei loro blues che si scorge «uno scorcio di un’America sconosciuta, con un’immaginazione e un immaginario specificatamente suoi.
Il poeta blues è stato in un luogo che noi abbiamo paura di visitare, come se esistesse un luogo fisico, un luogo proibito che tutti noi abbiamo dentro, nel quale facciamo esperienza del senso tragico della vita e delle sue incredibili meraviglie. In quel locale malfamato, in quel club di musica blues e soul aperto tutta la notte, avvertiamo in tutto il suo peso il nostro destino, assaggiamo il nulla che è al cuore del nostro essere, siamo simultaneamente disperati e felici, gridiamo la nostra rabbia, abbiamo voglia di piangere e di spaccare tutto, perché il blues, alla fin fine, parla di una tristezza che è più vecchia del mondo, e per questo non c’è cura».
L’immagine ha una sua vita propria, poi è naturale che per spiegare cosa succeda davvero in quel club, in quel juke-joint, in quella strada o in quel teatro sia più adatto Wynton Marsalis, che i palchi ha cominciato a calcarli in tenera età, e non ha mai smesso, suonando la sua tromba con tutti e per tutti: «Una volta che la band ha iniziato a suonare, sa che per la prossima ora e un quarto tutti quanti, i musicisti e le cameriere, gli iniziati e i neofiti, saranno coinvolti nella forma più pura possibile di comunità, avendo fatto la scelta di essere per una volta noi invece che io. Musicisti e pubblico si fanno carico delle medesime, difficili responsabilità: ascoltare un punto di vista che non corrisponde al tuo con lo stesso interesse come se stessi parlando tu: adattarsi a ogni sorta di situazione; prepararsi a dare almeno quanto prendi».
In quel momento le dimensioni del blues e del jazz sono davvero sovrapposte, identiche, complementari, una geometria eccentrica eppure perfetta, capace di contenere le sviste e le deviazioni, la gioia e la malinconia, il sogno, l’incubo e la realtà perché come dice ancora Wynton Marsalis «il nostro desiderio di dare testimonianza attraverso una forma d’arte è inarrestabile.
Si sviluppa un’energia palpabile quando ispirazione e dedizione si incontrano in un’arte creativa». Come direbbero gli esperti di comunicazione, soltanto per un quarto il linguaggio è espressione di quello che udiamo. Il resto è tutto quello che percepiamo in un altro modo: desiderio, testimonianza, e con due parole Wynton Marsalis svela perché anche il blues (oltre al jazz) può cambiarti la vita.
Marco Denti, fonte Il Blues n. 142, 2018