Magari il titolo, criptico e un po’ per iniziati, non invoglia. Recita Grateful Dawg: dove Grateful, in inglese ‘riconoscente’, allude al nome del mitico gruppo rock Grateful Dead fondato nel 1966 dal chitarrista-banjoista Jerry Garcia; mentre Dawg, variazione burlesca di dog, ovvero cane, è il nomignolo che il mandolinista David Grisman applicò a se stesso e alla propria musica.
A prima vista, dunque, roba per esperti. Jerry Garcia, icona di una certa cultura alternativa e psichedelica fiorita a San Francisco nella seconda metà degli anni Sessanta, morì il 9 agosto del 1995, ucciso a 53 anni da un infarto nella clinica Serenity Knolls. Negli anni precedenti s’era riavvicinato all’amico Grisman, ripudiando lo star-system del rock, per riscoprire una dimensione artistica più intima e acustica: piccoli concerti nei pub della Bay Area, dischi fatti in casa, musiche fuori mercato (folk, bluegrass, reggae, jazz) riproposte in un blend unico. Sicché, a pensarci bene, il titolo può essere letto come il ringraziamento affettuoso di un amico all’amico scomparso: appunto Grateful Dawg, il riconoscente Grisman.
Uscito a sorpresa tra i fondi di magazzino riservati all’estate, Grateful Dawg è un prezioso documentario musicale firmato dalla figlia del mandolinista, Gillian. Un giorno, sul finire del millennio, la regista si ritrovò per le mani uno scatolone di video impolverati da lei girati tra il 1990 e il ’91: un’esibizione al Warfield Theater, chiacchiere in sala di registrazione o attorno a una lattina di birra, soprattutto tanta buona musica.
Perché non farne un film che testimoniasse il rapporto particolare che, sin dal 1964, quando si conobbero a un concerto di Bill Monroe, i due pickers strinsero tra loro? Unica condizione: che i brani musicali fossero riproposti per intero, senza tagli per esigenze di montaggio.
Barbuti e ribelli, entrambi approdati alla musica in una chiave antiautoritaria, Garcia e Grisman intrapresero carriere diverse: l’uno, indisciplinato e carismatico, assurgendo a planetaria icona del rock; l’altro, perfezionista e fantasioso, proponendosi come patriarca di un più sotterraneo revival acustico destinato a forgiare generazioni di strumentisti (da Tony Rice a Mike Marshall, da Béla Fleck a Jerry Douglas) .
E’ possibile che Grateful Dawg suoni come un film per nostalgici, specie qui in Italia, dove il documentario musicale, con l’eccezione di L’ultimo Valzer di Scorsese e di Buena Vista Social Club di Wenders, non ha mai goduto di gran seguito. Eppure chi ama farsi sorprendere, chi apprezza la buona musica ripudiata dalle play-list radiofoniche, chi guarda senza schemi ideologici alle radici della cultura popolare americana avrebbe dovuto fare un salto nei cinema di Roma e Milano che hanno proiettato questo filmato gentile e commovente che travalica i limiti dello specialismo musicologico per farsi ritratto di un’amicizia umana e artistica.
“Era destino che si incontrassero”, spiega uno degli intervistati, il mandolinista Ronnie McCoury. In effetti, a scorrere le fotografie che passano sullo schermo intrecciate alle riprese live, alle immagini di un bizzarro videoclip realizzato per The Thrill Is Gone e alle informali sedute di registrazione, si precisa il senso di un legame che respinse l’usura del tempo, le pressioni del mercato discografico, gli ego personali. Dovreste vederli – magri come grissini, conciati da hippies, i capelli crespi o raccolti a coda di cavallo, lo sguardo un po’ ‘fumato’ – mentre nei primi anni Settanta suonano bluegrass alla testa di un quintetto messo insieme per una tournée locale, con il violinista Vassar Clements, l’unico con pipa e tirato a lucido, che oggi ricorda la simpatia e la professionalità di quei ‘capelloni’.
E dovreste vederli quattro lustri dopo, all’inizio dei Novanta, ingrassati e canuti, Garcia miope come una talpa, ma perfetti nell’amalgamare sul palco il loro fraseggio: sia quando intonano un’allegra filastrocca per bambini, Jerry Jenkins, sia quando eseguono in quartetto la complessa partitura di Arabia, una suite composta nei giorni della Guerra del Golfo.
“Io faccio finta che sia ancora qui, ma so che non lo vedrò mai più”, si intristisce Grisman ricordando l’amico. Per fortuna, dopo la morte di Garcia, Dawg ha continuato a produrre musica di alta qualità con la sua etichetta Acoustic Disc, la stessa che edita ora l’accurato CD contenente le 15 canzoni del film. Costa meno dei compact nostrani e dura di più (75 minuti e 40).
Michele Anselmi, fonte Country Store n. 63, 2002