Martin Luther King

Quale modo per ricordare Martin Luther King Jr, nell’anno in cui avrebbe compiuto novanta anni, il quindici gennaio scorso e a oltre mezzo secolo dal suo omicidio il 4 aprile 1968? Una chiave meno battuta ci è parsa quella di ripercorrere alcune canzoni che gli sono state dedicate da artisti afroamericani, giusto per dare un’idea della profondità della sua influenza nella coscienza collettiva di una comunità. Figura iconica, identificata spesso con la prima fase del movimento per i diritti civili, sin da quando si trovò a coordinare il boicottaggio degli autobus da pastore di Montgomery, tra la fine del 1955 e il 1956.

Come noto la parabola umana di King si esaurisce a Memphis, ma si menziona più raramente la fase dal 1966 al 1968, forse perché le sue posizioni si fecero più radicali e il consenso attorno alla sua figura, anche da parte dell’America bianca, si affievolì. King comprese che la sfida per i diritti civili si spostava ora sul versante dei diritti umani e sociali, poneva l’accento sulla povertà e sul militarismo, schierandosi contro l’escalation in Vietnam in un celebre discorso pronunciato alla Riverside Church di New York un anno esatto prima di morire. All’inizio del 1966 si trasferì in un’altra città cardine per il blues, Chicago, nel West Side, cominciando una campagna per desegregare il sistema degli alloggi e le fabbriche e gli esercizi discriminatori per i lavoratori. Promosse marce, sovente represse con violenza e iniziative per boicottare le attività discriminanti (operazione Breadbasket, gestita poi da Jesse Jackson) e si scontrò con una situazione forse più complessa che nel Sud. Non dimentichiamo poi che il giorno successivo all’assassinio di King, in oltre cento città americane scoppiarono rivolte e tumulti.
Chicago fu teatro di scontri molto violenti, si contarono undici morti, tutti afroamericani, quarantotto feriti e oltre duemila arresti. Ci furono incendi e distruzioni, a partire soprattutto dal West Side e il giorno successivo il sindaco Daley impose un coprifuoco a tutti quelli sotto i ventuno anni e la chiusura di diverse strade. Intervenne l’esercito su autorizzazione del presidente Johnson, alla fine i danni agli edifici ammontarono a circa dieci milioni di dollari.

E’ in questo clima che nascono, di getto due degli omaggi più forti al Dr. King, cantati dal sommo Otis Spann e scritti di getto, un po’ come aveva fatto dopo la morte di Kennedy, quando aveva composto Sad Day In Texas. Registrate in una chiesa sulla 43rd strada, accompagnato dal solo S.P. Leary alla batteria, Spann è intenso e straziante come poche altre volte. Il primo brano Blues For Martin Luther King, ha un testo quasi cronachistico, «avete sentito le notizie da Memphis ieri? Un cecchino si è preso la vita di Martin Luther King» e prosegue raccontando il dolore intimo dei familiari. Dal tono simile, eppure più intenso, quasi una elegia funebre, Hotel Lorraine, la voce si lascia trasportare dal dramma e i fraseggi del piano crescono di pari passo, sino a raggiungere apici di espressività assoluti. Il primo brano venne edito anche su 45 giri da parte della piccola etichetta Cry, di proprietà di Norman Dayron, con sul lato B un altro omaggio King, da parte di Big Joe Williams, The Reverend Dr. Martin Luther King. I pezzi di Spann sono ritracciabili nel CD Rare Chicago Blues 1962-’68 (Bullseye) mentre una versione dal vivo delle stesse è inclusa nel CD edito dalla Testament solo negli anni Novanta, Live The Life, con la presenza di Muddy Waters in alcuni brani e qualche leggera differenza nel testo.

Ma non è il solo bluesman di Chicago ad averlo ricordato, Little Mack Simmons è un altro esempio, infatti nello stesso anno incise un singolo per la Biscayne, dal titolo emblematico A Tribute To Martin Luther King (Stop Looting And Rioting), dai toni rhythm and blues scritta col sassofonista Gene Barge. Proprio quest’ultimo figura come produttore/ arrangiatore di un intero LP dedicato a King, The Last Request, uscito su Chess nel 1968 e di cui sono intestatari Ben Branch & The Operation Breadbasket Orchestra & Choir. Branch era un sassofonista (suonò anche per B.B. King negli anni cinquanta) poi bandleader in ambito jazz e attivista per i diritti civili, fu una delle ultime persone a vedere King vivo al Motel Lorraine, il Reverendo gli chiese di suonare quella sera il suo inno preferito Precious Lord Take My Hand, da qui il titolo dell’album, ‘l’ultima richiesta’ appunto. E’ un album molto sentito, dai toni jazz/gospel con alcuni musicisti di casa Chess quali Phil Upchurch (basso), Morris Jennings (batteria), Charles Stepney (organo), noti anche agli appassionati di blues per la loro presenza nei dischi ‘psichedelici’ di Muddy Waters e Howlin’ Wolf. Notevole una versione di Motherless Child con la voce guida del Rev. Clay Evans. E almeno indirettamente, anche se King non è nominato nel testo, è figlio di quel periodo un pezzo come Is It Because I’m Black (Twinight 1969) di Syl Johnson, lungo e teso midtempo funk, che resta tra i suoi momenti più ispirati. Giusto citare anche altri due artisti, Big Joe Williams con l’armonica mirabile di Charlie Musselwhite e la sua accorata The Death Of Martin Luther King su Thinking About What They Did To Me (Arhoolie1969) e Johnie Lewis, bluesman e imbianchino, ancora sull’etichetta di Strachwitz, con ben due pezzi You Gonna Miss Me (About Martin Luther King) e I Got To Climb A High Mountain.

Non registrò qualcosa per l’occasione, tuttavia sembra opportuno rendere conto del concerto che Muddy Waters tenne nel maggio del 1968 nell’area di Washington D.C. in cui erano convenuti i manifestanti della Poor People’s Campaign l’iniziativa cui stava lavorando King prima di essere ucciso. La tendopoli in cui migliaia di persone si erano accampata venne denominata Resurrection City, ne riferisce anche Lomax ne La Terra Del Blues, (sebbene di certo si confonda sulla presenza di Little Walter, deceduto purtroppo nel mese di febbraio).

Finora non le abbiamo nominate ma anche le donne hanno dedicato a King dei brani, è il caso di Big Maybelle e della sua Heaven Will Welcome You Dr King, un blues uscito su un singolo per l’etichetta Rojac di Harlem (l’altro lato conteneva la beatlesiana Eleanor Rigby!).
Ma soprattutto dobbiamo menzionare Nina Simone, schierata in prima linea già da anni, pensiamo alla sua rabbiosa Mississippi Goddam del 1964. Nina dedica il suo concerto del 7 aprile 1968 al Westbury Music Fair, alla memoria di King e il suo bassista, Gene Taylor, le scrive per l’occasione Why (The King Of Love is Dead). La performance dal vivo viene pubblicata su Nuff Said (RCA Victor), seppur parzialmente editata, nella sua versione integrale, oltre dodici minuti, disponibile su Forever Young Gifted And Black (RCA/Legacy), rivela tutta l’emotività nuda della sua voce, «cosa accadrà ora che il re dell’amore è morto?»
E la sua domanda risuona senza una vera risposta.

Si potrebbero citare altre canzoni, altri artisti (uno su tutti Stevie Wonder), ma chiudiamo con le parole di MLK Song da Living On A High Note (Anti) di Mavis Staples, scritto a partire dal testo di un celebre sermone del Dottor King, pronunciato il 4 febbraio 1968 e intitolato ‘l’istinto del tamburo maggiore’ (inteso come la voglia di essere in prima fila, di essere protagonisti), «non contano davvero le imprese compiute, i premi vinti, vorrei che alla fine qualcuno dicesse che ho cercato di amare qualcuno,  aiutato qualcuno che voleva giustizia,  sfamato qualcuno che aveva fame e  marciato per la pace».

Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 146, 2019

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