Aveva quattro anni Justin Townes nell’86 quando suo papà Steve irrompeva nel rigido mondo del country di Nashville col suo carico di rabbia e poesia. L’industria del disco ha necessità di etichettare l’arte, quindi il giovane texano per comodità fu inserito nel filone dei ‘new traditionalist’, ma Steve Earle aveva il fuoco dentro. Country nella forma, rock nell’anima. Era inevitabile che il cantautore prendesse altre strade, strade che passarono attraverso carcere, esperienze di droga e disadattamento. Poi arrivò il tempo della consapevolezza, della maturità, la scoperta dei suoni acustici e del pensiero di Woody Guthrie.
Justin Townes Earle, con quel suo secondo nome a ricordare il legame di daddy con quell’altro grande songwriter texano di Townes Van Zandt, non ha certo goduto della costante presenza del padre nella sua crescita, ma è altrettanto sicuro che l’impronta sulla sua personalità artistica arrivi da lì. E come potrebbe essere altrimenti.
Per certi versi il suono di Justin Townes è più legato all’America rurale di un tempo, e il mood, l’atmosfera che le sue canzoni ti trasmettono sono dannatamente più lonesome e madness di quanto non lo fossero quelle di suo padre. Ma è solo colpa della società di oggi, se quella di un tempo potevi avere l’illusione di cambiarla, quella di oggi ti disarma, perché non ti mostra alcun possibile futuro di serenità. Per questo nella musica di Justin Townes Earle c’è ancora più Hank Williams. Country music con le stesse motivazioni del blues.
Un mini CD nel 2007 di debutto seguito da quattro album di profonda e intima bellezza, malinconici ma non sempre, però sempre con quel retrogusto vintage che il giovanotto ama ostentare anche nell’aspetto e nel modo di porsi. Quattro album country folk hillbilly di grande spessore, l’ultimo dei quali si apre anche ad uno scarno rock soul di matrice Stax. Justin Townes Earle, segnatevi questo nome.
Maurizio Faulisi, fonte Chop & Roll n. 5, 2013