Sulla scena folk statunitense a tempo pieno da otto anni, assidua frequentatrice di festivals e locali le cui pareti e masserizie trasudano musica tradizionale, co-titolare di tre decenti LPs insieme al vecchio compagno di ventura Duck Donald, Cathy Fink tenta finalmente il grande passo con un album tutto suo uscito a sorpresa dal pollaio della Rooster.
Cathy Fink sará forse ricordata dai patiti dell’otm-revival per i suoi virtuosismi al banjo e all’Appalachian-dulcimer – a dire il vero PIú sulla scorta di insistenti voci di corridoio che attraverso prove tangibili su disco – e per essere stata la prima donna in assoluto a vincere il contest di clawhammer-banjo al West Virginia State Folk Festival di qualche anno fa.
Doggone My Time si divide in due parti, di genere alquanto differente, tenute unite saldamente dalla bravura dell’artista.
La prima facciata presenta un repertorio acustico, sostenuto principalmente dal banjo e dalla voce, che spazia dal tradizionale a composizioni originali in cui la nostra picking-girl sfodera una disinvoltura ed una sicurezza proprie di chi possiede uno stile personalissimo ed un bagaglio musicale enorme imparato, arricchito, modificato continuamente ‘on the road’ miglio dopo miglio.
Come era lecito aspettarsi, Cathy tiene fede alla propria reputazione e fornisce un saggio delle sue capacitá nel clawhammer-style di Cat’s Got A Measles (un intreccio di blues bianco e di colore firmato, ancor prima di Cousin Emmy, da Walter ‘Kid’ Smith), e nel two-finger di perfetta derivazione minstrel di I’m So Lonesome, I Could Cry (Hank Williams).
Il Monkey Medley, cavallo di battaglia nei contests e brano autografo nel quale si riassumono tecnica, fantasia, velocitá e cuore, è articolato in due momenti che contemplano un’indagine esplorativa sulle possibilitá dello strumento ed una serie di divagazioni su un tema di base blues monotonico.
Eccellente anche il finger-picking di chitarra che accompagna uno dei capolavori di Stephen Foster, autore sempre molto attuale nonostante il mutare di tempi e mode.
Cambiando facciata ci si tuffa come d’incanto nel western – swing e nel piú generico swing di squisita fattura entrambi eseguiti in punta di piedi dalla Fink ed una congrega di invitati, capitanata da sua eccellenza Kike Auldridge, alle prese con violino (un terrificante Michael Stein all’hot-fiddle), chitarre elettriche e non, accordion, basso e batteria; il tutto usato con parsimonia ed assoluto rispetto per l’udito altrui, in un’atmosfera che non esito a definire da night-club o da piano-bar.
La voce della protagonista, adattissima ad ogni occasione, passa con estrema facilitá dai toni caldi e confidenziali di Darkness On The Delta alle luci soffuse di The Midnight Prayerlight, al cipiglio risoluto nella tragicomica The No Tell Hotell.
Insomma Doggone My Time è in grado di soddisfare appieno un’ampia schiera di ascoltatori, e riesce nell’intento senza inutili strizzatine d’occhio al commerciale e senza scadere nella faciloneria, ma con una dignitá artistica ed una lungimiranza capaci di colmare un abisso (il piú delle volte solo apparente) di stili e forme che va dalla prima Hedy West alla Rose Maddox del periodo di mezzo.
Rooster 120 (Folk, 1983)
Pierangelo Valenti, fonte Hi, Folks! n. 3, 1983
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