All’incirca un anno e mezzo fa, nell’autunno dell’82, la RCA italiana, nel quadro di un tentativo di lancio promozionale della country music, sfornava la prima serie di dischi che dovevano costituire il test d’assaggio di un mercato fino ad allora poco ricettivo nei confronti di questa musica. Si trattava di una campagna impostata dalla RCA americana in tutta Europa accettata senza molto entusiasmo (a parte le dichiarazioni ufficiali) dagli stessi curatori della RCA italiana. E si trattava di un’operazione che la grossa etichetta discografica poteva permettersi di compiere in completa solitudine, rappresentando di fatto come catalogo, come successi e come numero di primi posti conquistati nelle classifiche del Billboard, la numero uno di Nashville. Ma l’operazione passava significativamente per New York. Negli ultimi cinque-sei anni, infatti, la country music è riuscita finalmente ad inserirsi stabilmente nel business delle grandi città come New York e Los Angeles, dove sono oggi presenti rispettivamente quattro e tre emittenti locali che trasmettono solo country, mentre nella stessa ‘grande mela’ sono sorti clubs dove si esegue, sette giorni su sette, solo questa musica.
Una prima spiegazione, commerciale, del fenomeno è che si sia trattato di una ‘scelta’ da parte del capitale e delle multinazionali del disco di sfruttare la country music con un ennesimo rilancio in grande stile, in un momento in cui il mercato non sembra offrire novità di rilievo. Un’altra spiegazione parte dal dato che i periodi di maggior successo della country music coincidono con momenti di crisi, sia essa economica, politica o di valori, quasi che il rivolgersi ad una musica che rappresenta una continuità con il passato possa dare quel senso di sicurezza perso nella confusione dei momenti difficili di una vita difficile, in una società continuamente proiettata verso il futuro. Probabilmente entrambe le spiegazioni contengono elementi di verità. Ed in più qui da noi il fenomeno risulta ancora più complesso per la superficiale conoscenza che si ha di questa musica.
Che cosa è, realmente, la country music?
Non vorrei ripetere cose dette e ripetute negli ultimi anni, ma il fenomeno è talmente vasto ed articolato che la stessa informazione musicale, in Italia, ha accostato arditamente nomi e generi molto diversi sotto la stessa etichetta ‘country’. E se traduciamo alla lettera, ‘musica rurale’, accresciamo la contusione in un gran calderone che contiene Nashville e la ‘West Coast’ californiana, Bob Dylan e Jimmie Rodgers, la Carter Family ed il country-rock.
Effettivamente ‘country music’ può essere tutto questo ed anche di più, sono differenti punti di arrivo di una musica nata nel Sud-Est rurale degli Stati Uniti, ma cresciuta e sviluppatasi anche in zone urbane ed attraverso il contatto con svariate culture locali (i neri del ‘profondo Sud’, i Cajuns della Louisiana, i messicani delle regioni di confine, gli Okies emigrati in California dall’Oklahoma). E’ chiaro quindi l’errore di informazione che si compie etichettando genericamente ‘country’ un brano musicale, un arrangiamento, un cantante.
Se oggi per comodità gli americani definiscono country music il genere affermatosi a livello nazionale verso gli inizi degli anni ’40, in seguito al progressivo assurgere di Nashville a centro commerciale principale di produzione di questa musica, dallo stesso ceppo originario sono scaturiti il bluegrass, il western-swing, il country & western, il country-rock, lo stesso folk revival, mentre sono sopravvissuti relativamente invariati generi più strettamente ‘etnici’ come la old-time music o la musica cajun.
In un mercato dominato dalla disinformazione, la RCA organizza dunque questa grossa operazione commerciale.
“Tutta l’operazione ‘country music’ è partita dalla RCA italiana” asserisce Alfredo Saitto, uno dei responsabili della campagna in Italia, “ed inizialmente ci siamo trovati a dover lottare contro la diffidenza della stessa RCA americana. Non si è potuto procedere ad una indagine di mercato preliminare, trattandosi di una musica troppo specialistica; si è quindi cercato di popolarizzarne la diffusione. D’altra parte si erano potute notare piccole avvisaglie ed elementi che potevano concorrere ad un indirizzamento del pubblico verso questo genere: basti pensare alla fortunata serie televisiva Dallas e ad altre serie analoghe in cui spesso il sottofondo è costituito da musica country; all’interessamento da parte del settore pubblicitario, con richiesta di sigle country per ‘spots’ pubblicitari. Tutto questo per dire che secondo noi il tempo era maturo per tentare un’operazione di lancio di materiale non più di sola importazione ma stampato in Italia”.
Dunque, iniziativa italiana o americana? L’unica cosa certa è che le ‘compilations’ dei dischi della prima serie vengono affidate in parte a giornalisti italiani esperti del settore: Massimo Stefani, Pierangelo Valenti e Silvio Ferretti de Il Mucchio Selvaggio, Paolo Carù e Mario Manciotti de L’Ultimo Buscadero. L’uscita di questi dischi (quattordici, per la precisione) viene preceduta ed accompagnata da un grosso lancio pubblicitario, trasmissioni televisive e radiofoniche, articoli sui periodici. Contemporaneamente al lancio la RAI manda in onda l’inchiesta Nashville E Dintorni, curata da Ezio Zefferi in collaborazione con la RCA, risultato di un lungo viaggio di una troupe televisiva negli Stati Uniti; ed ancora una serie di ‘specials’ e proiezioni di spezzoni di concerti, che continuano ad essere utilizzati in varie trasmissioni.
“La prima serie ha venduto abbastanza bene, anche perché era qualitativamente di un certo livello e comprendeva anche generi, come l’old-time e il bluegrass, che da noi hanno un certo mercato, e che non ci saremmo mai aspettati la RCA accettasse di stampare” mi dice Massimo Stefani. Ed in effetti nella categoria di prezzo economica della prima serie troviamo tutte proposte molto valide: 60 Anni Di Country Music, un doppio antologico che raccoglie materiale dalle prime incisioni del 1922 fino al gruppo degli Alabama (1980); The Outlaws ed Honky Tonk Heroes, con interpreti della piccola rivoluzione ‘texana’ contro l’immobilismo nashvilliano, e così via, con dei risultati qualitativamente di rilievo se si pensa che si tratta di solo materiale RCA. Meno valida forse la scelta dei dischi (a prezzo normale della seconda serie): per tutti, Heartbreak Express di Dolly Parton, una scelta per lo meno criticabile.
“La seconda serie” – è ancora Alfredo Saitto che parla – “vuole cercare di vendere in Italia la country music di oggi, seguendo le uscite sul mercato americano di Nashville. Si tratta ovviamente di dischi in vendita ad un prezzo elevato e di un genere meno specifico: un’altra filosofia rispetto alla prima serie, economica e divulgativa. Il risultato è stato ottimo rispetto alle previsioni, tanto è vero che l’operazione continua con la prossima uscita di una terza serie di dischi: delle prime due serie, infatti, sono state vendute 500.000 copie. In contemporanea con questa campagna, la RCA e la Levi Strauss & Co. di San Francisco hanno unito i loro interessi: sono state stampate 350.000 copie della prima serie, senza il marchio che caratterizzava la produzione ufficiale, e che la Levi’s ha offerto per un certo periodo agli acquirenti dei suoi blue-jeans, con il motto ‘Levi’s è country’, contribuendo in tal modo alla diffusione di questa musica”.
Da questa dichiarazione sembrerebbero perdere consistenza le due ipotesi che l’operazione sia fallita e che proprio in conseguenza della mancata vendita del materiale stampato la RCA abbia escogitato il modo per disfarsene alleandosi alla Levi’s.
Secondo Massimo Stefani “…la seconda serie è andata molto peggio; le scelte sono state completo appannaggio della RCA, ed è decisamente calata la qualità. So che sta per uscire una terza serie, per la quale non è stato organizzato alcun battage pubblicitario, sono stati investiti meno soldi, e sicuramente andrà molto peggio”.
Ma allora, come stanno effettivamente le cose?
I sondaggi che ho condotto personalmente nei principali negozi di dischi di Roma darebbero ragione a chi vede un fallimento dell’intera operazione. E questo contraddice quello che comunemente si pensa, e cioè che qualunque aspetto della cultura americana sia trasferibile al resto del mondo. Se si esaminano con attenzione i condizionamenti musicali-culturali della ‘colonizzazione’ americana in Italia, si scopre che è passata soprattutto attraverso il jazz ed il rock, a parte sporadiche apparizioni nelle nostre hit-parades di brani ‘pop’, le ‘Tin Pan Alley songs’, la produzione mercificata di consumo della capitale newyorkese. Jazz e rock hanno assunto un ruolo fondamentale nel panorama musicale italiano, con nascita di sue scuole, quella che riproduce i modelli americani e quella che di questi modelli si serve per una produzione originale ed autonoma. Sotto quest’ultimo aspetto si può parlare di un impatto profondo e costruttivo, di un contributo di elementi di rinnovamento e di arricchimento della nostra cultura musicale.
Come mai tutto questo non è mai successo con la country music?
“C’è la convinzione che la mancata affermazione della country music in Italia sarebbe un paradosso, perché tutto il resto della cultura americana automaticamente attecchisce” osserva Alessandro Portelli (insegnante di letteratura anglo-americana all’Università di Roma, è uno studioso di poesia e canzone popolare americana, sulle quali ha curato raccolte e pubblicato saggi; ha svolto per l’Istituto Ernesto De Martino ricerche sulla cultura e la musica popolare italiana ed ha curato registrazioni originali per i ‘Dischi del sole’). “Ma ad esempio non attecchisce il baseball (!), cioè una delle più grosse cose della cultura di massa americana. Evidentemente si tratta di qualcosa specificatamente legato ad una esperienza americana. Quale? Ovviamente ora non sto parlando di old-time music o di bluegrass, ma di Loretta Lynn, Dolly Parton … Nashville e dintorni! E’ legata ad esperienze non vincenti della storia americana: al Sud, alla classe operaia. E’ rivolta ad un pubblico che non ha niente a che fare con quello che compra la musica in Italia. Innanzitutto l’età: media, sopra i 30 anni. In Italia la musica da vendere è concepita essenzialmente come un prodotto per i ragazzi. Questa invece è musica ‘adulta’. Se pensiamo a Nashville, il film di Altman, trattava di gente sposata, la famiglia come argomento. Poi la fascia sociale. Da noi la musica, proprio perché è venduta ‘generazionalmente’, non è classista. In America invece la country music è destinata alle fasce alte della classe operaia ed alle fasce basse della classe media. A fasce, cioè, di reddito medio-basso, di istruzione medio-bassa, cioè classe operaia, … ovviamente classe operaia garantita. E, terzo elemento, per noi la musica country è espressione delle culture marginali, delle controculture, mentre il suo pubblico è quello che noi abbiamo sempre immaginato come il massimo dell’integrazione, ovvero la cui alienazione prende delle forme che non abbiamo capito e che non sono uguali alle nostre”.
Tutta una serie di considerazioni e di dubbi, questi, che la massiccia operazione RCA non poteva cancellare. La musica su cui si è puntato principalmente, vale a dire quella nashvilliana, non ha mai trovato in Italia grosso seguito. D’altra parte è vero che anche in America è un fenomeno particolare, una musica che nella sua standardizzazione e sclerotizzazione è soprattutto espressione di una certa cultura americana che potremmo definire ‘conservatrice’, provinciale, se non reazionaria. Evidentemente è un aspetto non secondario che può aver reso questa musica meno fruibile, per un pubblico non americano, di quanto non siano stati il rock e il jazz. Una musica che rimacina contenuti sempre uguali, sentimenti comuni e vita di tutti i giorni, spesso banalizzazioni; che musicalmente si è evoluta molto poco da quando, negli anni ’50, si attestò su una standardizzazione ‘country-pop’ voluta dal chitarrista e produttore Chet Atkins nel tentativo di aprire alla musica country le classifiche ‘pop’. Ed ancora oggi i dischi degli artisti che la RCA propone in Italia sono presenti contemporaneamente in tre classifiche del Billboard: quella ufficiale, quella country, e quella ‘contemporary adult music’, in cui trovano posto accanto a cantanti come Elton John, Barbara Streisand, Linda Ronstadt, Paul McCartney, Olivia Newton John.
“In Italia” dice ancora Alessandro Portelli “c’è una spaccatura che risale alla metà degli anni ’50, cioè all’arrivo del rock & roll. Tutta la musica che abbiamo ascoltato dopo non aveva niente a che vedere con quella che ascoltavamo prima. In America no. In America c’è una linearità che passa dalla tradizione orale alla old-time music, attraversa il Nashville-sound, devia per il rock e ci ritorna. Oggi a Nashville, nei dischi di country music, riscopri Elvis Presley (che non a caso sta alla Country Music Hall of Fame), riscopri gli Everly Brothers: la country music si è ripreso quello che è un prodotto della cultura meridionale. Questo significa che perfino nel più diluito prodotto di Nashville è possibile riconoscere la storia che c’è dietro. E’ come chi, ascoltando i dischi dei cantanti napoletani rock di oggi, vi riconosca tutta la storia della canzone napoletana. Una operazione che un ascoltatore italiano non può fare con la country music”.
Questo non vuol dire che in America si riesca a far digerire a chiunque il materiale sfornato dalla capitale della country music; ma non a caso i vari Willie Nelson, Waylon Jennings & Co. furono etichettati come ‘outlaws’ (fuorilegge) in seguito al loro tentativo di svincolarsi dallo strapotere ideologico-economico di Nashville. Ed è significativo sia per gli ‘outlaws’ che per il revival dell’honky tonk texano, nonché per il country-rock californiano, il fatto che si siano sviluppati lontano da Nashville, una condizione di liberazione psicologica evidentemente necessaria per produrre una musica diversa.
Quale giudizio dare sulla qualità della musica country, per lo meno di quella che la RCA tenta di vendere in Italia?
C’è una considerazione fondamentale da fare, che può sembrare persino ovvia, ed è che la country music è musicalmente debole se si prescinde dalla comprensione dei testi.
“C’è ovviamente il problema dei testi”, concordano alla RCA, “alcuni brani avrebbero bisogno di una verifica dei contenuti, in quanto soddisfano meno come emozione musicale. D’altra parte è difficile esportare su vinile una musica che è vissuta e partecipata così intensamente … qui in Italia ci si è limitati per ora ad aprire un mercato per questa musica … si tratta ora di supportare l’operazione visivamente, dare una ‘immagine’ alla country music”.
“La country music è, di tutti i generi musicali americani, l’unico in cui le parole stanno prima della musica”, afferma Portelli, “il che vuol dire che tutto sommato la musica è debole … è però banale dire ‘non vende perché è brutta musica!’. All’ascoltatore americano non appare questo, egli ci riconosce le ultime tracce del prodotto come era prima che fosse svuotato, esorcizzato. L’ultima cosa che aggiungerei è che, perdipiù, l’operazione RCA è stata fatta in maniera sbagliata, perché non hanno avuto il coraggio di vendere la country music per quello che è. Hanno cercato di vendere un nome, ‘country music’, contando sul fatto che la gente la comprasse automaticamente, per imitazione di quello che fanno gli americani. Vendendo però un prodotto che non soddisfa nessuno. Ecco, sostanzialmente come la RCA in America vendeva la country music turandosi il naso, e lo diceva, così ha fatto la RCA italiana, solo con la differenza che in America nel ’41 vendevano turandosi il naso un prodotto che il pubblico riconosceva, qui vendi turandoti il naso un prodotto che il pubblico non sa neanche cosa sia; come pretendi di venderlo?”.
“Perché questo fallimento?”, si chiede Massimo Stefani, dandolo per scontato. “Io tralascerei un attimo le motivazioni di carattere strettamente musicale, di gusti del pubblico italiano, per mettere in rilievo che attualmente c’è un calo di interesse, in Italia, nei confronti della musica in generale. Oggi in Italia vende solo la Baby Records; nell’83 c’è stato un calo netto delle vendite di dischi del 40%! Alla RCA molta gente è in cassa integrazione, la CBS chiude gli uffici di Roma. E non solo, nell’83 c’è stato anche un calo netto del 30% nelle vendite dei giornali. Dunque si legge meno, si ascolta meno. Di certo l’esplosione di TV e radio private ha la sua importanza: non si capisce perché spendere più di 20.000 lire per un LP quando basta sintonizzarsi su qualsiasi emittente privata per poter ascoltare e vedere musica di tutti i generi. E poi c’è un altro elemento, del quale discutevo sere fa con Renzo Arbore: secondo quest’ultimo c’è un decadimento culturale in basso delle nuove generazioni rispetto a quelle di cinque, dieci anni fa. Ma qui il discorso diventa più complesso perché investe la vita della società italiana degli ultimi venti anni”.
Tutte considerazioni che evidentemente alla RCA non devono essere sembrate sufficienti, che non hanno creato dubbi. Cito, dall’introduzione del depliant pubblicitario che illustra le prime due serie, alcune frasi: “Come un’ideale colonna sonora essa accompagna da decenni la vita di migliaia e migliaia di uomini qualunque, ma pure in qualche modo speciali, che hanno rinunciato al loro passato per avere un futuro e che al suo calore e al suo sentimento affidano la loro trepida fiducia nel domani. E’ dunque musica di gente comune per la gente comune, della quale si può dire, come di nessun’ ltra, che è ‘democratica’ almeno quanto il popolo che l’ha prodotta… perché sono sempre le piccole storie quotidiane, alla portata di tutti, a fornire la sua materia prima, ordinata in melodie semplici e comunicative … Questo spiega perchè, a dispetto della sua anima profondamente ‘bianca’ e americana, la country music ha trovato il seguito più ampio tra popoli di tradizione e cultura profondamente diverse. I sentimenti, soprattutto quelli ‘forti’, parlano una lingua universale e trovano comunque modo di aprirsi la strada, al di là di ogni barriera di linguaggio e di mentalità. Non deve perciò meravigliare se è ad una canzone country & western che il tassista giapponese chiede di alleviare le fatiche del proprio lavoro o se il vaquero argentino alza soddisfatto gli occhi al cielo quando la sua radio scalcinata si lascia sfuggire un vecchio hit di Waylon Jennings”.
A parte la generalizzazione sulla ‘democraticità’ della gente che avrebbe prodotto questa musica (ma quale ‘country music’, anche quella che ha fatto da colonna sonora alle campagna elettorali del razzista Wallace?), si legge chiaramente tra le righe: “questo aspetto della cultura americana è stato trasferito a tutto il resto del mondo, dal Giappone al Sud America, non si vede perché non possa essere venduto anche in Italia”. Peccato che i due esempi non siano generalizzabili. Il Giappone ha avuto un’occupazione militare americana, e la country music è anche la musica dei militari, in genere meridionali e poveri per di più. Ed il Giappone era anche più penetrabile per la maggiore distanza culturale. Per i giapponesi rock, blues, country, tutto era ‘esotico’ e facevano meno distinzioni di quante ne potremmo fare noi.
E non parliamo poi del Sud America, per il quale vale tanto il discorso della distanza culturale quanto quello della occupazione militare, che se non è ufficiale (e non lo è mai stata) di fatto ha accompagnato e supportato tutti i tentativi di ‘colonizzazione’ del continente sudamericano sotto forma di una massiccia presenza di ‘consiglieri militari’ americani. E nell’esercito la country music è musica di tutti i gradi: mi raccontava un amico di un generale americano, anche lui ‘consigliere militare’ nel Salvador. che si era trasportato da casa tutta la sua collezione di migliaia di dischi di country music. Dunque, penso che sia sufficientemente improbabile che un autista dell’Atac, immerso nel traffico caotico di Roma, possa mai chiedere ad una canzone country & western di alleviare le fatiche del proprio lavoro; o che un operaio alla catena di montaggio della Fiat, in odore di cassa integrazione, possa alzare soddisfatto gli occhi al cielo quando la sua radio scalcinata si lascia sfuggire un vecchio hit di Waylon Jennings!
Tutto questo non per giudicare impossibile o perdente in partenza il tentativo di lancio della country music in Italia: ma per dire che tutta l’operazione andava forse preparata con una informazione più puntuale e tenendo conto delle richieste del mercato italiano. Ma, mi conferma Massimo Stefani: “Per quanto riguarda la critica, in Italia non esiste. Tra industria discografica e pubblico non esiste un filtro di tipo qualitativo, ma solo giochi di potere delle case discografiche, che puntano a mandare a Discoring qualsiasi cosa, anche robaccia, sicuri di vendere; ma in questo modo si diseduca il pubblico”.
Dunque, critica non preparata sulla musica country.
Portelli va oltre: “I giornalisti italiani ‘specializzati’ sono impreparati in genere, da quello che capisco io; io leggo devotamente le critiche discografiche e non riesco mai a capire come è fatto un disco da come lo descrivono. Poi c’è da dire che fondamentalmente alla critica la musica country (o per lo meno quella che è stata stampata e diffusa in Italia) non piace. I commenti che ho ascoltato alla presentazione ufficiale alla stampa della prima serie erano pesantissimi ed annoiati.
A parte gli esempi brutti, a parte che l’ascolto era un po’ prevenuto (come quelli che ascoltano la musica orientale e dicono ‘è tutta uguale’, con la differenza che questa ti sembra di poterla capire perché è musica occidentale); però se uno si specializzasse si accorgerebbe degli abissi che ci sono tra un George Jones e un George Hamilton IV. Laddove la critica italiana è preparata, è interessata moltissimo alla musicalità, al virtuosismo strumentale, cose sulle quali la country music ha ben poco da dire. E non è un caso che esista una critica seria e preparata su old-time music e bluegrass, alle quali ci si può accostare con gli stessi criteri con i quali ci si accosta al jazz, cioè analizzando gli arrangiamenti, gli strumenti, le tecniche. Figuriamoci cosa possa interessare in Italia una esperienza così difficile da capire come quella americana, una musica semplice in cui però i microelementi stilistici sono estremamente importanti, e non li percepiamo, una musica in cui c’è, distorta, una esperienza operaia … non gliene frega niente a nessuno!”.
Ed anche Andrea Carpi affonda il coltello nella piaga. “Si potrebbe discutere il fatto se è necessario o meno che il critico musicale debba essere competente di musica, di storia della musica, di tecnica musicale (ma, per carità, che non sia un musicista fallito). E’ chiaro che un giornalismo basato più sull”impressionismo’ è utile, rappresenta in qualche modo il pubblico medio. Però il rapporto tra i ‘cronisti descrittivi’ e i ‘tecnici’ è sproporzionato. Troppi non hanno competenza tecnica. Rispetto alla musica ‘folk’, poi, il problema è acuito. E’ più difficile avere una informazione corretta, c’è stata confusione nel distinguere ‘folk’ come competenza musicale, ricerca, come discorso etnico, rispetto a ‘folk’ come etichetta di consumo: incapacità di distinguere il momento di studio dalle mediazioni commerciali delle case discografiche.
Poi c’è una avversione per tutto quello che è ‘folk’, scoppiata dopo il periodo di boom del folk revival in Italia; un fenomeno di reazione, non meditato, non approfondito; tutti quelli che hanno ‘subito’ un’invasione di folk l’hanno identificato con tutto ciò che è povero tecnicamente e musicalmente, non serio sul piano dello studio musicale. Oggi si tende alla tecnica, anzi alla tecnologia. E si ha quell’equivoco di fondo che porta una parte della critica a dire che oggi Guccini ha arricchito la sua musica, che c’è stata una crescita; prima era musicalmente ‘dimesso’, una chitarra e tre accordi.
Secondo me non è cambiato nulla, si confonde la ‘quantità’ (batteria, basso, tastiere, effetti) con la ‘qualità’. Il giornalista che vive sulle ‘impressioni’ la scambia per una crescita musicale ‘reale’, non si accorge che ci sono sempre tre accordi! Qui c’è un riflesso del consumismo, visto come oggetto quantificato e non come oggetto di qualità. E l’operazione RCA riflette questa confusione informativa. E’ stata messa insieme un’accozzaglia di fatti confusi. E il discorso sul perché non attecchisce è nell’equivoco di collocazione di questo tipo di musica, costretta a muoversi nei contesti della musica ‘pop’ mentre dovrebbe muoversi su mercati diversi, amatoriali. Da noi non ci sono le basi per fare un discorso commerciale con la country music; vista solo commercialmente, la country music non vale nulla. L’errore forse è stato di non considerare che il pubblico italiano è troppo avanti per il country banale … ma troppo indietro per il folk-rock di qualità, non commerciale. E non dimentichiamo che ci sono meccanismi di mercato talmente complessi … anche le operazioni ‘rock’ e ‘Q-disc’ inizialmente furono un fallimento, poi alla lunga sono risultate vincenti. E non è un falso che in quasi tutto il mondo la country music vende”.
Conclusioni? Io lascerei il discorso aperto, perché a questo punto tutto sembra possibile. I toni trionfalistici delle dichiarazioni raccolte alla RCA trovano forse ragione di essere solo nella consapevolezza della difficoltà di aprire un mercato per la country music in Italia. Sotto questa luce i dati sulle vendite possono anche essere considerati positivi e spingere quindi la RCA a non demordere. E non è detto che con i mezzi di persuasione occulta alla sua portata l’operazione non possa alla lunga risultare vincente. Ma, a giudicare dalle opinioni pressoché unanimi sulla qualità della musica che la RCA intende imporre in Italia come ‘country’, siamo convinti che questa vittoria sia auspicabile?
Mariano De Simone, fonte Hi, Folks! n. 8, 1984