Se esiste un immaginario ponte di collegamento tra le nebbiose notti della padana e le assolate giornate texane, un eroe che ha conquistato con eguale successo gli scettici appassionati e i più indifferenti neofiti, questo avrebbe il viso, il corpo, ma soprattutto le dita di Jesse ‘Guitar’ Taylor, gigante texano che tra una, o meglio due, birre e l’altra ha reso incandescente le frequenti visite del beniamino Joe Ely nel nostro paese. Difficile non accorgersi di quell’armadio che, con una chitarra customizzata e una serie di tatuaggi a cornice, fendeva di assoli taglienti i racconti musicali di Ely; difficile non amare un personaggio che unendo una contagiosa voglia di divertirsi a una presenza scenica monumentale rendeva ancora più godibili spettacoli già di per se stessi eccezionali.
La chitarra di Jesse, che spesso tra le sue mani diventa qualcosa tra il mandolino, per le dimensioni, e il fucile mitragliatore, per le sequenze vorticose di note che da esso escono, è sempre stata vista però solo come uno strumento di accompagnamento per le gesta del Flatlander di Lubbock; questo Texas Tatoo è qui a smentircelo. L’esordio su Appaloosa ci regala un Jesse in palla su tutti i fronti, sì, forse non lo si può definire un vocalist supremo ma, se guardiamo la sostanza, il disco non ci fa rimpiangere i diversi e grandi leaders che spesso questo chitarrista ha accompagnato e, sia dal punto di vista strumentale che da quello interpretativo, quello che ascoltiamo credo che sia realmente prossimo alle migliori possibilità espressive dell’artista.
Quello che lascia senza dubbio a bocca aperta è la facilità di fraseggio che esplode in ogni assolo e passaggio che Jesse ci fa ascoltare; una fluidità ed una incisività che lo pongono, e non siamo certo noi a scoprirlo, nell’olimpo dei Texas guitar singers, lì, manico a manico con Steve Ray, Johnny Winter, Billy Gibbons e Bugs Henderson. Come l’albino e, in tono minore Bugs, anche Taylor adotta uno stile che si ispira direttamente a quello dei grandi chitarristi country & western degli anni cinquanta e sessanta, e tra Merle Travis, Roy Clark, Joe Maphis e Chet Atkins, il flat-picking di stampo Nashvilliano viene inserito su un monolitico basamento di deragliante Texas rock & roll dando, all’insieme, una stupefacente carica d’impatto.
I panorami del West Texas vengono percorsi dalla Newman di Jesse ‘guitar’ e insieme alle scariche di note, grazie ad uno spiccato senso melodico, ci ritroviamo anche noi a percorre qualche dirt-road con tanto di trailers abbandonati e pozzi di petrolio a stantuffo.
L’attacco frontale di You’ll Never Get Me Up vuole mettere subito le cose in chiaro e il pezzo, scritto dal celebre autore Mickey Jupp, riesce ad esaltare al meglio le qualità dei musicisti che accompagnano il nostro gigante in questa avventura ‘italiana’.
Il basso a mantice di Glenn Fukunaga, già spina dorsale delle band di Joe Ely e John Mooney, non ha bisogno di presentazioni, così come saranno già conosciuti a molti di voi i nomi di Donald Lindley, batterista della band di Lucinda Williams e di innumerevoli sessions, e dei Flatlanders stessi, Joe Ely, Butch Hancock e Jimmie Dale Gilmore, presenti vocalmente nel trascinante rock’n’roll di Naked Light Of Day.
Ma le sorprese, almeno a livello di ospiti, non sono finite: il cantautore inglese Terry Clarke presta la sua voce e la chitarra a dodici corde in Language Of The Blues, Don McCalister, grande ‘country-autore’ dona la sua splendida voce a quasi tutte le armonie vocali e Kimmie Rhodes, cantautrice protetta di Willie Nelson emoziona nella splendida ballata Livin’ For You.
Nella seconda parte delle sessioni di registrazione, entrambe seguite e lavorate da personaggi di spicco come Merel Bregante e Jerry Tubb, troviamo la vecchia band di Jesse e Brad Brobisky, i Keepers, aiutati nell’occasione dalla famosa Toni Price e, in Cheque Book da una serie di giovani austiniani del giro di Guy Forsyth.
Language Of The Blues segue le coordinate di un solido e tirato rock blues texano in cui, oltre al solito assolo al fulmicotone di Jesse, ci troviamo a sottolineare il grande lavoro della sezione ritmica; Livin’ For You è invece, come già accennato, una ballata desertica che, oltre a rivelarsi uno dei pezzi migliori dell’intero disco, consolida le quotazioni di Jesse come autore.
Naked Light Of Day è una bomba che, grazie ai reriuniti, per l’occasione, Flatlanders rischierà di far esplodere i vostri woofer e che, con Stubbs Boogie, vince la palma come ipotetico ‘singolone’.
Belli ed importanti sono anche lo strumentale Caveman che, grazie al lavoro solistico della chitarra, è lo spotlight perfetto per le evoluzioni musico-ginniche di Jesse e la cupa Two Days Off In Amsterdam, dal ritornello orecchiabile e dalle chiare allusioni alle molteplici perdizioni incontrate da un povero texano nelle terre di nessuno della metropoli olandese.
Chiudono il disco la sincopata I’ve Got To Know, un mid-tempo laid-back nella migliore tradizione sudista e Cheque Book sempre dalla penna di Mickey Jupp.
Spero che questo disco consacri definitivamente un talento che, per quanto visto sui palchi e adesso anche su disco, si meriterebbe di diritto il titolo di unico e vero ‘Texas Tornado’…Io ve ne ho parlato, adesso non vi resta che ascoltarlo…
Appaloosa 135 (Singer Songwriter, 1998)
Paolo Liborio, fonte Out Of Time n. 29, 1998
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