A volte mi rendo conto che, a forza di fare complimenti agli stessi personaggi, si rischia di diventare noiosi, ma è d’altronde vero che, se dovessi stilare una classifica personale di quelli che ritengo musicisti ‘intelligenti’, Tony Trischka occuperebbe sicuramente una delle prime posizioni. E la sua ‘intelligenza’ musicale, che non è solo bravura, risulta ampiamente fino dai suoi primi lavori discografici, che risalgono ormai a più di dieci anni fa. Per dirla in due parole Tony non è stato né il primo a svolgere un lavoro innovatore sul banjo a 5 corde, né sarà l’ultimo, e già Bela Fleck ne è un segno, ma sicuramente si è dimostrato costantemente un punto di riferimento per i banjoisti e per tutti i musicisti appartenenti alla cosiddetta area ‘progressiva’ o evoluta che dir si voglia. E il definirsi ultimamente della cosiddetta ‘nuova musica acustica’ non ha potuto che sottolinearne il peso.
La sua è infatti una musica che risente molto poco dei limiti abituali dello strumento e del genere, il bluegrass, cui è generalmente confinato, ed è stato lui tra i primi ad attingere a piene mani al jazz e al rock per ampliarne i confini, senza porsi falsi pudori e limiti relativi all’uso dell’elettrico rispetto all’acustico. Questo gli ha sicuramente fruttato l’odio di certi puristi ma anche una crescente stima da parte degli addetti ai lavori, come pure del pubblico, ed oggi come ieri la sua è una musica che, come raramente succede in questo campo, si fa ascoltare con piacere anche dai non appassionati e che, pur non rinnegando del tutto le basi del bluegrass, ne è spesso al di fuori per un senso di ‘modernità’ assolutamente positivo e privo di forzature.
Per quanto riguarda il suo stile poi si è detto abbastanza su queste stesse pagine, fra articoli e recensioni, ma vorrei sottolineare quanto contribuisca a determinarne la riconosciuta originalità un approccio al banjo e alla tastiera che è quasi di tipo pianistico, con preciso riferimento ai jazzisti dell’ultimo ventennio soprattutto per quanto riguarda il discorso ritmico.
Questo per arrivare all’album in questione, A Robot Plane Flies Over Arkansas, in cui tutte le chiacchiere fatte finora lasciano spazio all’aspetto emozionale, che non è poi secondario: Tony è infatti uno dei pochi nel suo campo capaci di farti saltare dalla sedia con l’intensità di un passaggio o l’originalità di un accento. E il disco rispetta pienamente le premesse pur non essendo neanche tra i più inusuali della sua produzione, ma rispecchiando anzi la tendenza generale attuale che è poi quella di un riflusso guidato e moderato in cui le tendenze progressive di cui sopra si trovano a dividere il terreno con elementi stilistici più tradizionali, fondendosi il tutto ulteriormente in un linguaggio unico ed ancor più personale.
Premesso ciò, in questo A Robot Plane Flies Over Arkansas trovano posto sia i classici pezzi ‘da corsa’ come Purchase Grover che quelli quasi tradizionali come il Fiddle Tune Medley, ma altrettanto peso hanno gli episodi descrittivi, quasi impressionistici, come John’s Waltz To The Miller o di sapore rock come Triceratops. L’ultimo titolo, The Navigator, è anche il più complesso, e racchiude un po’ tutti gli elementi in una piccola suite di otto minuti. Inutile dire che Tony è in splendida forma e gli altri musicisti non sono da meno, a cominciare dai compagni di Skyline (di cui recensiremo prossimamente l’ultima uscita discografica), al Grisman Quartet con il ritrovato Tony Rice, fino ai vecchi amici Statman, Barenberg, e ai violini di Evan Stover e Matt Glaser.
Rounder 0171 (Bluegrass Progressivo, 1983)
Stefano Tavernese, fonte Hi, Folks! n. 9, 1984
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