Nel 1963 con The Times They’re A Changin’ Dylan affondò la lama tagliente delle sue liriche nel cuore dei soprusi politici e l’eco delle sue composizioni fece il giro del mondo. Era quindi giunto il momento di fuggire da un cliché che rovinerà invece molti folksinger politicizzati degli anni 60: la monotematicità.
Intendiamoci: Dylan non fu mai strettamente politicizzato, ma il suo disco precedente lo avvicinò seriamente a questo rischio, mentre questo Another Side Of Bob Dylan, ovvero sull’altro aspetto di Bob Dylan, è da considerarsi un lavoro più romantico, a volte goliardico, anche se i testi rimangono di valore assoluto e un paio di frecciate all’estabilishment non se le fa sfuggire neanche qui.
Apre questo lato insolito di Dylan All I Really Wanna Do, canzone ridanciana, leggera (un po’ stonata anche…) non proprio memorabile, ma molto godibile. La cover dei Byrds è però più apprezzabile. Si prosegue col blues pianistico e amoroso di Black Crow Blues. Bello, ma nulla più.
La temperatura si alza con Spanish Harlem Incident, anche perché la storia della zingarella di Harlem scalda decisamente il cuore. Arriva la prima patata bollente del disco con Chimes Of Freedom, canzone, che negli anni ’80 sarà molto cara a Amnesty International, più bella nel testo che nella musica, rimane una delle opere mirabili di Dylan.
Si allenta la tensione con I Shall Be Free No. 10 che riprende quella senza opus presente su The Freewheelin’ Bob Dylan. In quel caso voleva scazzottare Richard Burton ora se la prende addirittura con Cassus Clay! Finirà male? Talkin’ blues dannatamente spassoso, quasi come il primo. Poi è la volta della meravigliosa To Ramona, canzone d’amore dolcissima a tempo di valzer lento e di Motorpsycho Nitemare, altro testo brillante su un vagabondo che giunge in una fattoria, viene accolto con il fucile, poi benvoluto e invitato a riposare in casa e infine tacciato di comunismo e cacciato in malomodo quando sostiene di ammirare Fidel Castro! Un brano grottesco che ben fotografa la paura di quegli anni.
Altro cappello abbassato a rendere omaggio a My Back Pages, uno dei brani più criptici e poetici dell’intero corpus di Dylan con un ritornello splendente. Una poesia allo stato puro.
Siamo quasi alla fine e I Don’t Believe You, anche conosciuta come She Acts Like We Never Have Met, è una canzone d’amore con tanto di risatina durante l’esecuzione. Molto gradevole, ma non memorabile. La Ballad In Plain D è pallosetta (già dal titolo!) e troppo lunga. Ha un testo molto bello e poetico, ma un paio di strofe in meno dal punto di vista musicale sarebbero state un toccasana.
Chiude il classico I Ain’t Me Babe, portata al successo da decine di artisti. Un brano da antologia per testo, musica e ritornello che chiude un album che per molti versi è paragonabile a The Times They’re A Changin’ anche se con tematiche, approccio e difetti diversi. Dove sul primo si avvertiva una claustrofobia nei testi e a volte un’involuzione nelle musiche, qui il problema sembra superato, ma in certi tratti in modo fin troppo leggero.
Comunque rimane un disco assolutamente da avere, esattamente come il suo predecessore.
Columbia 90327 (Singer Songwriter, Folk, Folk Revival, 1964)
Fabrizio Demarie, fonte TLJ, 2006
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