La ruggine non dorme mai, ma vive. Era tempo che Young non si presentava puntuale ad un appuntamento discografico; questa volta, quando si poteva non solo prevedere ma anche ragionevolmente giustificare un ritardo (il disco era stato annunciato come doppio, troppo vicino nel tempo al precedente, per di più con lo stesso titolo…), ecco invece il nuovo microsolco pubblicato senza problemi. Di che si tratta dovrebbe essere cosa abbastanza risaputa: è l’album del film Rust Never Sleeps girato a L. A. nel ’78 durante un concerto con i Crazy Horse, film che dovrebbe circolare regolarmente tra breve anche da noi.
Ma, a differenza di quanto solitamente accade per esperienze analoghe dove la musica non riesce a reggere separata dall’immagine, si può parlare in questo caso di un lavoro che non ha bisogno di supporto da parte della macchina da presa per essere considerato e apprezzato. Siamo ben lontani da Journey Through The Past del novembre ’72, il precedente tentativo cinematografico di Neil trasferito, senza successo, su vinile: troppo noiosa e deludente la musica prescelta (eccettuati i primi documenti storici degli Springfield), così come dal precedente live ufficiale Time Fades Away del ’73 che raccoglieva solo nuovi motivi e che forse proprio per questo non è riuscito ad incontrare il favore del grosso pubblico che avrebbe preferito avere anche qualcosa di più familiare da ascoltare.
Live Rust (il titolo è stato opportunamente cambiato) invece saprà convincere senza difficoltà perché c’è in esso tutto lo Young di oggi, che tanto seguito e consenso ha pure qui da noi, nelle sue due differenti facce, acustica ed elettrica, e la differenza tra le due, come il precedente lavoro di studio (sempre con i Crazy Horse) Rust Never Sleeps ha ampiamente sottolineato, è più marcata che mai. E sul fatto che ciò sia una cosa positiva pare siamo tutti d’accordo.
Per di più l’album raccoglie i brani più noti di Neil, quelli che, più o meno, piacciono di più (si tratta di una sorta di best on stage in fondo), infliggendo così un duro colpo al mercato dei bootleg che da sempre prolifera intorno alla figura del cantautore canadese. Un disco quindi gagliardo, vivo, ricco e completo. Questi i pezzi acustici presenti (chitarra e armonica): Sugar Mountain, I’m A Child, Comes A Time, After The Gold Rush, My Hey Hey Hey (Out Of The Blue), The Needle And The Damage Done.
Quelli elettrici, che occupano poco meno di tre facciate su quattro, sono: When You Dance I Can Really Love, The Loner, Lotta Love, Sedan Delivery, Powderfinger, Cortez The Killer, Cinnamon Girl, Like A Hurricane, Hey Hey My My (Into The Black), Tonight’s The Night. Sono questi ultimi, resi più grintosi dallo spavaldo e deciso accompagnamento dei Crazy Horse, a concedersi ovviamente maggior libertà strumentale, senza intaccare però la struttura originale di ciascun brano. Il pubblico partecipa naturalmente, tutto preso dall’entusiasmo per la musica che scorre e che riconosce, mostrando di amare Neil più di quanto si creda.
Warner Brothers 2296 (Singer Songwriter, 1979)
Raffaele Galli, fonte Mucchio Selvaggio n. 26, 1980