Battute che si fanno, mentre ti stai accendendo l’ennesima sigaretta e chi è lì con te deplora perché a lui il tuo fumo da fastidio. Che poi le dici tanto sai che non accadrà mai, fino a che, sul finire del 2010, ti imbatti in una news sul web che recita che a marzo la mitica Allman Brothers Band – forse nella miglior formazione dopo l’inarrivabile degli esordi – celebrerà i 40 anni del Live At Fillmore East in quella che ormai è diventata la loro sede preferita per fare i concerti, il Beacon Theatre di New York (i due Fillmore (purtroppo non ci sono più e nemmeno quel geniaccio di Bill Graham).
Non sono mai stato a NYC, dico al mio amico che invece – lui – ci è stato più volte per lavoro. Un controllo, così per curiosità ci diciamo, al costo dei biglietti, “beh, non costano poi così cari” e ai voli, anche quelli più che abbordabili. Per dormire ci affidiamo ad un amico tour operator (quello che ci procurava i biglietti aerei dei musicisti che facevamo arrivare da Memphis per il Rootsway Festival) e la ‘mattata’ è fatta.
«Si, però smetti di fumare per davvero», mi dice. Cazzo, questi si ricordano sempre tutto.
Quindi arriva marzo e all’inizio della seconda settimana ci imbarchiamo dall’aeroporto di Bologna e arriviamo – via Parigi – nella grande metropoli statunitense. Fa un freddo becco, ma è proprio uguale a quella dei film di Woody Allen. Al mattino si lavora in casa, un bilocale con cucina a Manhattan, ed è strano essere lì col tuo computer mentre dalla finestra intravedi uno spicchio di Hudson attraverso quelle scale esterne che fanno così tanto ‘Physical Graffiti’. Intanto era arrivata una vecchia Gibson (mi pare fosse una LG) che dovevamo portare in Italia ad un amico che l’aveva acquistata, quindi avevo anche da strimpellare.
Finalmente arriva la sera del primo concerto, ci avviamo verso il bellissimo teatro di Broadway, a due passi da Verdi Square, con largo anticipo. Facciamo un giro attorno al palazzo, notiamo sul lato esterno due grossi mezzi che contengono lo studio mobile per le registrazioni audio/video e, dopo il tempo per un caffè da Starbucks, una telefonata alla manager di Gregg Allman per accordarci sull’orario del nostro incontro. Eh già, avevamo un accesso speciale per incontrare il celebre cantante tramite la rivista Il Blues poiché era da poco uscito il suo album Low Country Blues.
Ci viene dato il pass e un energumeno – così grosso che quasi faceva provincia – ci introduce nei meandri del teatro, fino ad un ascensore piccolissimo. In America è tutto grosso ‘over size’, questo no. In America – anche nei vecchi film in bianco e nero – gli ascensori sono veloci e silenziosi, questo no. Comunque, stretti come delle alici Rizzoli (fortunatamente senza il prezioso sugo piccante), arriviamo al piano dei camerini e veniamo introdotti in un salotto con appese grandi foto della band di Macon, Georgia, in attesa di incontrare una delle figure fondamentati di quel rock anni ’70.
La tensione sale a mille, non si capisce perché ci si senta come davanti ad un plotone di esecuzione ma, quasi, ti viene voglia di scappare, non fosse per dover affrontare quell’ascensore da incubo. Dopo pochi minuti Gregg Allman arriva, assieme ai suoi lunghi capelli biondi raccolti in una coda e ai suoi tatuaggi. Mi aspettavo un gigante con una voce tonante ed invece incontriamo una persona alta normale e dai modi gentili e delicati. Prende e sfoglia con (pare) interesse alcune copie de Il Blues ma – soprattutto – gli si illuminano gli occhi alla vista di una bella ‘punta’ di Parmigiano-Reggiano (questo apre più porte del miglior ladro in circolazione), arriva persino una giunonica bionda, di quelle tipiche americane, che se lo porta in camerino, il formaggio non Allman, e lo apre all’istante con estasiati commenti.
In teoria avrei dovuto fare delle foto a Gregg che lui, abituato, si era messo in posa. Ma io – che comunque nella mia vita di foto ne ho fatte – non riuscivo a capire nulla, nel vero senso del termine, e quindi alla fine sono riuscito a farne una, per di più fatta male. Ci accordiamo per fare un’intervista via Skype più avanti (purtroppo le sue condizioni fisiche non lo permetteranno), i saluti e i complimenti di rito e il ‘bestione’ ci riporta all’ascensore. Ma questa volta neanche me ne sono accorto. Alla fine si apre una porta e ci troviamo dietro le batterie di Butch Trucks, Jaimoe e Mark Quinones, gli amplificatori di Warren Haynes, Derek Trucks e Oteil Burbridge e l’Hammond di Gregg. Cazzo! Siamo sul palco della Allman Brothers Band con tutto il Beacon davanti a noi.
Usciamo dal teatro, ci fermiamo a mangiare qualcosa in un diner nei pressi, per poi rientrare. I controlli all’ingresso sono cosa seria, il poliziotto questiona per la macchina fotografica, ma gli mostro il pass e tutto fila liscio e alle 20,00 in punto – gli americani sono più furbi di noi sull’orario dei concerti – inizia il primo dei due live che ci attenderanno. Beh, intanto che eravamo nelle spese abbiamo detto facciamone due.
Don’t Want You No More/It’s Not My Cross To Bear e già si capisce che sarà una serata memorabile. Dopo quasi tre ore – con due intervalli dove ti puoi andare a bere una birra in uno dei tanti bar all’interno del teatro – il tempo di ritirare la testimonianza su CD dell’intero concerto e siamo in metropolitana felici come due bimbi davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli pregustando già la serata successiva, quella della celebrazione.
Una serata, quella del 12 marzo, che resterà indimenticabile, forse il più bel concerto di tutta la mia vita, dove il celebre doppio album verrà replicato ed omaggiato ad iniziare dall’introduzione con la voce di Duane Allman e la storica presentazione di Michael Ahern, quell’”Ok, the Allman Brothers Band” che farà esplodere il Beacon sulle note di Statesboro Blues. Unica pecca, in una serata perfetta, l’assenza di Dickey Betts. Si vociferava che per quella sera potesse esserci una tregua nella grande lite intercorsa tra la band e il chitarrista di West Palm Beach. Ci siamo dovuti ‘accontentare’ di gustarci David Hidalgo in un paio di brani a cui venne concesso l’utilizzo della celebre Gibson Gold Top appartenuta a Duane Allman.
Fine della storia, ma prima di tornarcene a casa una serata a vedere i Furthur, la band di Bob Weir e Phil Lesh (special guest quella sera Warren Haynes) e andare a fare un’intervista, questa volta sì, a Don Fleming, Direttore dell’Alan Lomax Archives, nell’incredibile sede sulla 41st Street.
Diciamo che ne è valsa la pena smettere di fumare.
Antonio Boschi, fonte Il Blues