Che la tradizione, qualsiasi genuina tradizione musicale, possa fare volentieri a meno dei Doctor Jekill e dei Mr. Hyde, di tutta quella vergognosa legione di mistificatori, solisti o in gruppo, americani od europei, legati all’utopia di rivitalizzare (termine tanto inutile quanto elargito a profusione) la musica folkloristica e che ogni santo giorno ne inventano una pur di attirare, sfruttando la disinformazione e la buona fede dei più, il maggior numero possibile di acquirenti, lo dimostra ancora una volta Norman Blake con la sua nuova incisione.
Se il precedente Directions era un’opera, in pieno accordo col titolo, protesa verso varie direzioni (l’ago magnetico della bussola appena accennata sul retro della copertina indicava comunemente stranamente il sud-est), in quest’album Blake (nato in Tennessee, ma georgiano d’adozione) sembra aver trovato la giusta via tra le melodie sudiste, d’estrazione sia rurale che urbana.
Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che, se esiste una musica tradizionale bianca nordamericana (esiste, perbacco!), questa è nata, si è sviluppata ed è tuttora fiorente nelle regioni sud-orientali degli Stati Uniti. Non a caso la bibliografia riguardante l’otm (o semplice folklore, o idioma musicale tradizionale e popolare, o… chiamatelo come volete) si è recentemente arricchita di un prezioso volume intitolato con una felice intuizione del suo autore, Bill C. Malone, Southern Music: American Music (University Of Kentucky Press).
Directions, dicevamo, si poneva, coi suoi pregi e soprattutto coi suoi difetti, come un momento di transizione, meditativo ed esplorativo, dove un certo tipo di folk contemporaneo o universale (Bill Monroe, Jean Ritchie, il blues) coincideva in un ménage a tre con motivi tradizionali e composizioni originali in cui venivano tentate soluzioni d’effetto ma stilisticamente discutibili (c/o il finale fiatistico di Uncle Sam curato da Joseph Byrd, il superbo arrangiatore di Jazz di Ry Cooder) e dove la tecnica strumentale del chitarrista aveva ancora il sopravvento.
The Rising Fawn String Ensemble si rivela un lavoro di gruppo, tanto che i ruoli del titolo e del titolare potrebbero venir con eguale risultato ed efficacia addirittura scambiati: entra in forma stabile il fiddle di James Bryan, trovano posto composizioni della moglie Nancy Short, il caratteristico tocco di Blake si estrinseca soprattutto nell’accompagnamento, il repertorio si è fatto più maturo (nel senso di studio sulle tradizioni) con scelte oculate ed opportune.
Il suono infine, nella maggior parte dei casi, è quello di un’eccellente squisita string band georgiana, non già rurale, che gli Skillet Lickers o Earl Johnson sono molto lontani, ma più consona ai canoni dei sofisticati Dupree’s Rome Boys (1929) e Swamp Rooters (1930) oppure dei meglio conosciuti Georgia Yellow Hammers (1927-29). Ed in copertina pare proprio raffigurato un gruppo d’epoca!
Ecco che allora i due medleys strumentali, uno per facciata, risultano pregni di quel parlor-style (o stile da salotto) che, prima dell’avvento della musica riprodotta su disco, determinò nell’ambiente dei ricchi coltivatori sudisti e più ancora nelle città del nord, un salto di qualità di tutto retaggio tradizionale che, considerato dapprima quasi con disprezzo dall’alta e media borghesia, riuscì a poco a poco, ingentilendosi ma perdendo la sua carica naturale e le sue origini popolari, a farsi accettare dalla classe cosiddetta colta.
E se l’ascoltatore porrà orecchio attento a Opera Reel e a Briarpicker Brown (secondo Blake di provenienza ohio-kentuckiana, ma pressoché identica alla Everybody To The Punchin della West Virginia e molto nota nella versione di Clark Kessinger), dovrà certo convenire col sottoscritto che l’uso del violoncello, di due violini di timbro classicheggiante, l’assenza del banjo e soprattutto la chitarra di Blake tutta tesa ad imitare il pianoforte (una vecchia conoscenza per le melodie nobili della settentrionale Nuova Inghilterra), conferiscono alla presente interpretazione un’atmosfera diversa da una registrazione sul campo anche attuale dei suddetti brani.
La stessa cosa è avvertibile in The Promise, scritta da Nancy, che immediatamente rimanda alle note sospese e rarefatte, da colonna sonora cinematografica sul tipo di Via col Vento, scaturite dai duetti di violino e violoncello nel limpido Live At Mc Cabe’s. A differenza di David Bromberg il quale, musicista squisitamente urbano, compone canzoni e ballate in cui emerge l’arte di un vecchio reincarnato minstrel formatosi alla scuola delle taverne di campagna (e le autentiche poesie in musica di Last Song For Shelby Jean, The Main Street Moan o ancora The New Lee Highway Blues hanno veramente dell’incredibile, data la sua prospettiva metropolitana) Norman Blake è invece autore colto e raffinato.
Lo si nota nella struttura armonica e nei preziosissimi testuali di Charles Gaither, l’avventura tragicomica di un falegname ubriacone finito in carcere per gioco d’azzardo, o di Tin Foil And Stone, dedicata a tale Clarence Schmit, un artista che plasma le proprie creazioni riciclando rifiuti e simili. La profonda ricerca accademica esplode in tutta la sua pienezza con il rifacimento esclusivamente strumentale della Child n.26 The Three Ravens (o The Crow Song, The Twa Corbies etc.); e non solo perché la scelta di questa particolarissima ballata scozzese presuppone una preparazione non indifferente (per il solo fatto di conoscerne l’esistenza), ma soprattutto perché Blake riporta con leggere varianti due strofe del testo più antico in nostro possesso, vale a dire quello pubblicato nel Melismata di Thomas Ravenscroft del 1611.
È quindi un recupero responsabile e ragionato della vecchia balladry anglosassone colta, per intenderci, quella cioè che, nata e diffusasi dalla e con la trasmissione oro-rurale da generazione a generazione, è ben presto finita nelle raccolte di musica tradizionale più o meno legittime ed illuminate, interrompendo bruscamente con ciò, almeno in Europa, il processo di elaborazione popolare verso la metà del sec. XVIII (c/o i vari romantici Allan Rasmay, Thomas Percy, Joseph Riston e, in parte, Robert Burns).
Non dimentichiamo però che l’interprete Norman Blake col materiale più propriamente rurale e di formazione a string band riesce a rendere il massimo: Handsome Molly è certo un capolavoro, così come il brano strumentale che porta la sua firma Jeff Davis, un omaggio allo sfortunato presidente della Confederazione (argomento, assieme al fascino della prima ferrovia, spesso ricorrente nelle sue liriche), per finire con Old Ties, una delle più belle canzoni di Uncle Dave Macon (17 aprile 1926, Historical HLP-8006), in cui l’allievo può giustamente sentirsi orgoglioso di avere superato il maestro (il che, trattandosi di un grande, non è poco). Dal punto di vista schiettamente tradizionale The Rising Fawn String Ensemble è senza alcun dubbio il miglior album di Norman Blake in assoluto.
Rounder 0122 (Old Time Music, 1979)
Pierangelo Valenti, fonte Mucchio Selvaggio n. 27, 1980