I Dieci Migliori Dischi Degli Anni Novanta

I dieci migliori dischi country degli anni ’90 secondo Maurizio Faulisi.
Mettere insieme 10 titoli di dischi pubblicati negli anni ’90 – i migliori secondo ciascuno di noi – si è rivelato quasi una faticaccia, addirittura una vera e propria sfida. Le indicazioni date ai collaboratori erano più o meno queste: “Segnala i CD di country music suonata con strumenti elettrici che più ti hanno entusiasmato, a prescindere dallo stile della musica eseguita, si tratti di cantautori o artisti new country, western swing oppure honky tonk, e spiegane le motivazioni attraverso brevi recensioni”.

Gli anni ’90, particolarmente intorno alla loro metà, videro la produzione di un enorme quantità di dischi di altissimo livello. In quegli anni Nashville stava vivendo un periodo di successo che non aveva mai avuto in passato, i dischi si vendevano nell’ordine di decine di milioni di copie in tutto il mondo. Garth Brooks, che arrivò a vendere più di Madonna e Michael Jackson, non era un fenomeno isolato, le vendite totali del genere country in quegli anni superavano spesso quelle pop e rock. Un fenomeno generalizzato che, persino in Italia, non passò inosservato.

Ricordo che anche i quotidiani si sentirono obbligati, per dovere di cronaca, a dedicare al new country intere pagine del giornale, ma, come quasi sempre succede da queste parti, trattando l’argomento in maniera un po’ snob, come una qualsiasi curiosità che ci viene segnalata da quel paese luna-park che sono gli Stati Uniti (chi ricorda il commento del corrispondente da New York del nostro TG RAI presente al concerto di Garth Brooks al Central Park, capisce cosa intendo dire).

Da qualche anno, come più volte sottolineato sulle pagine di questa rivista, il genere country ha subìto una flessione delle vendite, così i discografici hanno pensato ‘bene’ di reagire spostandolo sempre più verso il pop-rock. Da qui tutte le polemiche, discussioni, prese di posizione dei musicisti e degli appassionati del classico suono country, sul suo snaturamento da parte dell’industria discografica.

Parecchi oggi affermano che la musica country stia ‘morendo’, seri segnali in questo senso sono stati trasmessi sotto varie forme, attraverso canzoni, dichiarazioni, interviste… Staremo a vedere. Certo, però, è che gli anni ’90 sono stati favolosi, tanto da non permetterci di riuscire ad acquistare tutto quanto avremmo voluto. Per questo mettere insieme 10 titoli si è dimostrata un’impresa ardua.

Raccogliere il materiale dei collaboratori prima della pubblicazione mi ha dato la possibilità di constatare se vi erano dischi segnalati più volte, e ciò ha parzialmente influenzato le mie scelte (eccetto Heather Myles che non sono comunque riuscito a lasciar fuori dalla mia lista).

E non solo: avendo visto che nella maggior parte dei casi i titoli riportati si riferivano a materiale new country, ho pensato di inserire prodotti di cantautori e, particolarmente, di certi artisti ‘minori’ che si sono dimostrati nella maggior parte dei casi la migliore alternativa al suono della Nashville più ‘commerciale’; mi riferisco ai ‘new-neo tradizionalisti’ come Dale Watson, Junior Brown, BR5-49, ecc. Tengo tuttavia a sottolineare che avrei inserito volentieri anch’io dischi di personaggi come Dwight Yoakam, Clint Black, Randy Travis, LeeAnn Rymes, Trisha Yearwood, Dixie Chicks, Asleep At The Wheel…

Prima di passare all’elenco, vi prego di non scordare che quanto segue non è una discografia di base consigliata, ma, ripeto, soltanto i dieci dischi preferiti da alcuni collaboratori di Country Store. Sentitevi liberi di inviare i vostri dieci, mi farà piacere pubblicare il punto di vista dei lettori.

BR5-49, BR5-49 (Arista, 1996)
Sarà perché la musica che ho iniziato ad ascoltare quando avevo 14 anni è il rock’n’roll, ma questi BR5-49 mi hanno immediatamente conquistato. Il loro sound fa riferimento agli anni ’50, eseguono rock’n’roll trattino country e honky tonk come pochi altri riescono a fare. Qualche brano originale, ma soprattutto remake di classici di Ray Price, Moon Mullican, Jerry Lee Lewis, Webb Pierce. Fanno ballare e trasmettono positività. Ritengo questo loro secondo lavoro ancora il migliore a tutt’oggi.

HEATHER MYLES, Highways & Honky Tonks (Rounder, 1998)
L’abbiamo vista e ascoltata dal vivo, pertanto non credo vi sia motivo per cui debba parlare del suo stile. Esegue country classico, honky tonk e Bakersfield sound, quasi tutti i brani sono originali, ha una voce piacevolmente mascolina, calda e avvolgente. E’ stimata dal pubblico, dalla critica e da molti colleghi (in questo disco duetta addirittura con Merle Haggard), ma non è ancora riuscita a conquistarsi uno spazio all’interno di una major. Non c’è giustizia a questo mondo.

WAYNE HANCOCK, That’s What Daddy Wants (Ark, 1997)
Ringrazio il Sig. Della Casa perché sue sono le prime parole che ho letto sul conto di Wayne Hancock. Ma è per l’insistenza delle voci positive che mi giungevano da più parti che, infine, ho deciso di compiere il primo acquisto. Risultato, oggi posseggo tutti e quattro i suoi dischi, e ne vado orgoglioso. Ha una voce che ai più può perfino causare mal di stomaco, pare abbia un carattere poco affabile, in tanti lo giudicano un pò matto, ma se c’è uno su questo pianeta che ha fatto proprio lo spirito e il songwriting di Hank Williams, questo, signori, è Wayne Hancock. Non a caso il nipotino di Hank Senior, che si fa chiamare Hank III, nel suo debutto canta cose di Wayne e gli fa una pubblicità enorme. Ascoltate la sola Highway 54, e gli darete ragione.

JUNIOR BROWN, Guit With It (Curb, 1993)
E’ stato partorito da Ernest Tubb e Jimi Hendrix. Non è una battuta. Di lui Country Store ne è ha parlato troppo poco. Un chitarrista di lusso, uno stile particolarissimo, una chitarra a due manici (steel ed elettrica standard in un solo corpo), una potente voce baritonale, un ottimo autore, un personaggio, nel suo insieme, quasi geniale. Conosco chitarristi di diversa estrazione che lo ammirano pur non essendo appassionati di country music. Contrabbasso, chitarra acustica, batteria spazzolata e guit-steel guitar (così ha battezzato la sua chitarra) sono gli strumenti che accompagnano il suo vocione. La sola Highway Patrol vale il prezzo del disco.

DALE WATSON, Cheatin’ Heart Attack (Hightone, 1995)
Ho conosciuto il texano Dale Watson attraverso questo disco, che continua a essere il mio preferito. Tutte le canzoni sono originali come in tutti i dischi della sua carriera. Scrive, canta e suona rispettando i più classici canoni del country più classico. Anche le immagini trasmesse dalla sua musica sono le più classiche a cui i suoni country ci hanno abituati. Ma non si fraintenda, la sua forza sta nell’essere in grado di far accettare suoni standardizzati da tempo, come nuovi. Honky tonk fumosi raggiunti a ‘cavallo’ di enormi e cromati ‘bisonti’ della strada, birre rese amare dalle lacrime della disperazione, redneck in libera uscita serale, mani sporche di grasso… musica semplice per gente semplice.

JOHN PRINE, The Missing Years (Oh Boy, 199?)
Originario del Kentucky, John Prine ha vissuto molto a Los Angeles, ma di recente ha aperto gli uffici della sua Oh Boy Records a Nashville. Gli appassionati di musica bluegrass ricorderanno il suo nome per aver scritto il brano Paradise, una bellissima canzone ecologista, ripresa da Jim & Jesse e dai Seldom Scene. Una lunga storia alle spalle, in assoluto uno dei migliori cantautori americani, una di quelle carriere caratterizzate da alti e bassi, non tanto qualitativi, ma di fortuna, infatti ad un certo punto decide di far partire un’etichetta tutta sua. Un songwriting intelligente, confezionato da una musica in bilico tra country, folk e rock. Questo disco è meraviglioso, non una canzone sbagliata, melodie e testi paurosi, registrato all’inizio degli anni ’90 (non ricordo esattamente l’anno in cui lo comprai, e non è scritto neanche sulla copertina…) con l’aiuto di, tenetevi forte: John Jorgeson, David Lindley, Albert Lee, Jay Dee Manness, Steve Fishell, Phil Everly, Tom Petty, Bonnie Raitt, Bruce Springsteen e molti altri. Peccato non averlo.

IRIS DeMENT, The Way I Should (Warner Brothers, 1996)
Questa gentile signora, dalla voce sottile e apparentemente innocua, con soli tre dischi è stata in grado di risvegliare la coscienza della vecchia America dei sani valori, almeno di quell’America che ha la forza di guardarsi dentro, fermandosi a riflettere su dove questo grande paese sta andando e, soprattutto, su cosa sta perdendo per strada. Tagliente e spietata, non solo verso una certa parte della sua società, malata di potere e denaro, ma anche rispetto alla mancanza di disponibilità della gente di sforzarsi di mettere a fuoco il significato della propria esistenza. Wasteland Of The Free è una canzone di denuncia senza mezzi termini verso quanto di peggio i moderni USA sono stati in grado di generare, Letter To Mom tratta il tema della violenza sessuale all’interno delle mura domestiche; ogni canzone pesa come un macigno e la gentile signora è coraggiosa come un guerriero sioux. Vale la pena di conoscerla, partendo magari da questo disco.

MARY CHAPIN CARPENTER, Stones In The Road (Columbia, 1994)
L’industria country l’ha molto celebrata, ma lei, la piccola Mary Chapin, non s’è mai sforzata di caratterizzare la propria musica in maniera tale da accattivarsi totalmente l’ambiente di Nashville. Tant’è che disco dopo disco il legame con la country music s’è assottigliato tanto da renderlo oggi quasi impercettibile. Qui siamo nel 1994, ancora lontani dalla musica del recente Time, Sex, Love, il suo ultimo lavoro assolutamente cantautorale anche nella concezione sonora. I suoni acustici, il sound country rock, l’insieme degli arrangiamenti, fanno sì che Stones In The Road possa, senza troppa fatica, far parte di una lista dei migliori dischi country (su questo posso essere sicuramente contraddetto, ma lasciate che io la pensi così). E’ una raccolta di canzoni di notevole spessore, eseguite da una band ormai rodatissima condotta da John Jennings, interpretate con il solito inconfondibile calore che la piccola grande Mary Chapin Carpenter riesce a trasmettere. E’ uno dei grandi amori della mia vita, davvero.

ALAN JACKSON, The Greatest Hits Collection (Arista, 1995)
Ho trovato così difficile scegliere un suo disco che mi è toccato ripiegare sul ricco Greatest Hits uscito sei anni fa. 20 canzoni impossibili da scordare, che fanno cambiare opinione su Nashville, qualora si ritenga questa città esclusivamente un covo di furbi produttori servi del dio denaro. La country music al suo meglio. Voce meravigliosa, assolutamente ‘giusta’, così come melodia e arrangiamento di ogni canzone questo ‘all american boy’ decide di mettere in piedi. Sbagliasse un colpo di tanto in tanto, riusciremmo a immaginarlo un terrestre come tutti gli altri. Alan Jackson è un artista di gran classe, non c’è altro da aggiungere. Uno che sul palco è immobile davanti al microfono, che non ha bisogno di studiare atteggiamenti che possano renderlo ‘personaggio’: è tutto nella sua voce e nella sua capacità di cantare. Uno dei dischi più richiesti dal mio impianto hi-fi.

MARTY STUART, Tempted (MCA, 1991)
Nonostante The Pilgrim sia il disco che più lo ha impegnato nella sua realizzazione, Tempted, con la sua apparente semplicità, rimane in cima a quelli che di Marty Stuart preferisco. Anzi, per dirla tutta, lo ritengo uno dei dischi più belli della mia intera collezione. Una decina di canzoni perfettamente riuscite, leggere al punto giusto, di assoluta immediatezza. Lui ci ha messo l’esperienza e il mestiere, Tony Brown e Richard Bennett hanno curato la regia, Stuart Duncan, Mark O’Connor, Paul Franklin, Harry Stinson, Glen Worf, John Jarvis, Ray Flake hanno fatto la loro parte, bene come sempre. La caratteristica di Tempted è la compattezza del suono, per lo più scarno, ma di grande solidità in ogni momento del disco, ahimè troppo breve (10 canzoni per 30 minuti secchi). Potenti le versioni di I’m Blue I’m Lonesome di Bill Monroe, Get Back To The Country di Neil Young e il tributo a Johnny Cash, con Blue Train.

Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 60, 2001

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