L’idea di questo articolo anomalo, ed il cui titolo per intero avrebbe dovuto essere ‘Retrospettive ma non solo… ‘, ci è stata sì fornita dalla pubblicazione del primo CD ‘ufficiale ‘ di Kent Burnside, uno dei numerosi discendenti del patriarca R. L. Burnside, ma anche, e forse soprattutto, dalla considerazione che il tempo che viviamo si sia ormai trasformato in un continuo presente. Così ogni cosa che non accade adesso non è importante
Ecco perché ci auguriamo, affinchè che le ‘retrospettive ‘ che verranno abbiano veramente un senso, che riescano, visto che mescoleranno in maniera pericolosa passato e futuro e magari solo di striscio il presente, ad essere ancora leggibili. Potrebbero essere flash su personaggi dimenticati, scommesse investite su chi si picca di essere diverso dagli stereotipi imperanti, o chissà che altro. Una sfida? Forse. Ma perché non provarci, visto che il tempo non scorre uguale per tutti.
A questo punto però crediamo sia giunto il momento di affrontare il tema di oggi: i Burnside, partendo proprio dal fondatore della stirpe che traghettò il country blues dalle colline del Mississippi nel XXI° secolo.
R.L. Burnside
La prima volta (c’è sempre una prima volta per tutto) che lo ascoltammo, se la memoria non ci inganna più del consentito, crediamo avvenne attorno alla metà degli anni Settanta. Il tutto accadde per caso allorchè scovammo, nello scaffale delle offerte di un negozio di dischi di Milano ormai da anni diventato dapprima un bar, successivamente un bazar ed oggi sfitto, un paio di LP dell’Arhoolie Records, etichetta già allora leggendaria sia per la difficoltà di reperire i suoi prodotti nel nostro paese che per la qualità degli stessi. Alle foto di copertina, scarne ma efficacissime nei contenuti (rappresentano reliquie di quella civiltà contadina che allora cominciavamo a rinnegare con supponenza ed oggi in parte rimpiangiamo), si abbinavano titoli lapidari quali Mississippi Delta Blues Vol.1 e Mississippi Delta Blues Vol.2. Ma quando si dice che la cura nel confezionare un prodotto è spesso sinonimo del valore dello stesso, la prova è proprio qui. Infatti, entrambi gli album si aprono a libro e se il retro di copertina riporta le foto di tutti gli artisti presenti, le due pagine interne sono occupate dalle note, splendide, compilate dallo stesso autore delle registrazioni targate 1967: George Mitchell, ed integrate da quelle di David Evans. Se il primo volume ci apparve allora una proluvie di nomi ignoti o quasi (con l’eccezione di Furry Lewis e Fred McDowell), fu il secondo a colpirci in quanto, essendo solo due i bluesmen presenti (Joe Callicott e R. L. Burnside), ci permise di entrare in contatto con la loro musica con più facilità. E tra i due quello che ci colpì maggiormente fu Burnside (1926, Harmontown, Mississippi).
Sappiamo che oggi può apparire ridicolo, o perlomeno sconfinante nell’ovvio, affermare, 40 anni dopo e con tutto quello che ormai li circonda, che brani come Poor Black Mattie, nervosa e scattante, Going Down South, lenta e profonda, Skinny Woman, con la scansione del tempo sulla cassa della chitarra e le voci di sottofondo che si rincorrono, Catfish Blues, vocalmente intensa, abbiano avuto su di noi l’effetto di una scossa elettrica, nonostante fossero tutti quanti imperniati unicamente sul canto ed il suono percussivo e senza fronzoli di una chitarra rigorosamente acustica. Ma che la nostra non fosse l’infatuazione modaiola di un momento, e oggi meschina autocelebrazione di quanto allora fortunosamente vedemmo lontano, lo dimostrammo non perdendo mai di vista il bluesman R. L.. Infatti, nell’aprile del 1982 nel numero 51 de Il Mucchio Selvaggio commentammo la pubblicazione, quasi contemporanea, di due ellepì emblemi rispettivamente delle sue anime musicali, quella acustica (R.L.Burnside Plays And Sings The Mississippi Delta Blues – Swingmaster 2101) e quella elettrica (R.L.Burnside: Sound Machine Grove – Vogue 513502), entrambe coabitanti in lui senza conflitti e quindi senza menomazioni emozionali reciproche. Successivamente, dal numero 12/13 di questa rivista cominciammo a seguire, oseremmo dire passo passo e sempre con maggior interesse, il suo percorso musicale e per quanto ci fu possibile anche quello umano.
Fu proprio così che seguimmo la sua evoluzione, per altri forse involuzione, che lo condusse a vivere sia situazioni acustiche più aderenti alla tradizione e svolte in solitudine o in duo con Jon Neremberg, che situazioni elettriche iniziate a livello familiare e concluse in trio con Kenny Brown alla chitarra ed il nipote Cedric alla batteria. Ma se con le tracce acustiche R. L. sembra unicamente teso a conservare il sapore del tempo andato, senza per questo limitarsi a rispolverarlo, ciò che stupisce nella sua concezione sonora è la trasformazione che immette in tutto quello che odora di attualità. Infatti se partiamo dai brani registrati ‘in famiglia’, catturati da David Evans nel 1979 e pubblicati per la prima volta nell’album della Vogue sopaccitato, ci possiamo rendere conto di come la realtà abbia sparigliato le carte del suo blues come lo conoscevamo sino al giorno prima. Ma il bello è che il tutto avviene senza barare, in quanto quel blues irrituale andava già per la maggiore, anche se ignorato dal music business, nell’ambito dei ‘juke joint‘. Burnside ha sdoganato, mettendogli le iniziali maiuscole, il Mississippi Hill Country Blues che già esisteva, e lo ha fatto usando le sue note semplici alla chitarra, le sole quattro note che conosceva e che ripeteva sino a renderle essenziali ed evocative.
Ma se quelli erano i prodromi del terremoto che sconvolgerà la critica parruccona, spiazzerà l’industria discografica, manderà in fibrillazione la gioventù e diventerà in seguito ‘il modo’ di trasmettere emozioni scelto essenzialmente da gruppi bianchi (North Mississippi All Stars su tutti, grazie ad una creatività nata, mutuata e conservata da quei luoghi in cui loro stessi erano vissuti) che vi riconosceranno ‘la nuova strada da percorrere’, gli avvenimenti che faranno da innesco a tuttociò sarà in primis il disco del 1996 con la Jon Spencer Blues Explosion. Ed in effetti se A Ass Pocket Of Whiskey (Il Blues n.57), al cui riguardo R.L. ci disse «Vedi, mi piacciono quei tipi, loro volevano suonare dei torridi e sporchi blues, ed io volevo mostrargli ciò che è il blues…», polverizzò lo steccato tra rock e blues, fu seguito a breve distanza di tempo (1998) da Come On In (Il Blues n.65) in cui Burnside & Co. fanno copulare senza vergogna il blues con ‘programming’ e ‘remix’. Ma se possiamo rischiare di chiamare questa come l’alba del nuovo mondo, alle cui esagerazioni però R.L. non si aggrappò più di tanto, lasciando sì alla casa discografica qualche operazione chiaramente concertata allo sfruttamento del momento favorevole (e d’altronde, avendo alle spalle 14 figli ed un numero imprecisato di nipoti, alcune concessioni diventano obbligate), ma conservando fino alla fine, per le sue esibizioni dal vivo, l’energia primigenia del trio con Kenny Brown e Cedric. Comunque Burnside rimarrà, per noi, unitamente a Jr. Kimbrough, colui il quale prese per mano il blues acustico mississippiano, ormai languente e confinato nei simposi letterari in cui si sviscerava il nulla e nei musei, e prendendo spunto da quello che girava nei ‘juke joint‘ ne migliorò l’elettrificazione, portandola al punto giusto di espressività che lo rese appetibile, invidiabile ed irripetibilmente unico per le nuove generazioni, conservandovi però, aggiornate, le emozioni primitive indispensabili.
Ma se sinora può essere stato ‘semplice’ affrontare proprio il titolo ricavato per questo spazio, ‘Retrospettive’, le cose si fanno ‘meno semplici’ se affrontiamo il ‘…ma non solo’ che, nel nostro caso, riguarda come gli eredi di R. L. Burnside hanno vissuto e stanno vivendo il fenomeno musicale che ha preso il nome di North Mississipi Hill Country Blues.
Duwayne Burnside
Dopo che Joseph e Daniel abbandonarono il circuito musicale familiare (chi per scelta, Joseph, chi per trasferimento in un altro Stato, Daniel), Duwayne, voce e chitarra, è ad oggi il solo superstite del debutto elettrico del clan Burnside avvenuto tra il 1979 ed il 1980. Come logicamente, e quasi ovviamente diremmo, Duwayne cercò subito, non appena uscito dal giogo paterno che però gli servì quale base insostituibile, di trovare la propria via al blues in modo da lasciare tracce personali e ben distinguibili. Di lui tratteggiò ottimamente Matteo Bossi nel n.92 a pag.33 quando, recensendo Live At The Mint e Under Pressure (rimaste sinora le sue uniche testimonianze discografiche), mise in luce la dicotomia tra passato e futuro che li percorre, e che è in fondo la problematica che agita ogni innovazione. Sulla spinta di ciò, ci premeva, a questo punto, riascoltarlo 9 anni dopo. Stante la mancanza di nuove opere nelle vesti di leader, avremmo dovuto rifarci alla sua presenza di ospite di lusso, sia discograficamente che concertisticamente, dei North Mississippi Allstars e Hill Country Revue.
Volendo noi però di più, abbiamo fatto appello alle uniche testimonianze sonore tangibili a suo nome, che sono quelle raccolte a Potts Camp, Missisippi, durante lo svolgimento del North Mississippi Hill Country Picnic organizzato da Kenny Brown. Tre sono i brani attribuitigli, Outskirt Of Town, Snake Drive e Skinny Woman. Ed è proprio da questi brani, curiosamente fondamenta del suono del padre che ne è anche autore, che scaturisce la personalità di Duwayne che, nonostante si affidi ad un chitarrismo torrenziale (Outskirt…), ad una slide cattiva oltre i limiti (Snake…) e ad una sfibrante (Skinny…), lascia trapelare quanto la sua chitarra nervosa possa essere moderna se intelligentemente sfruttata, e come il suo canto mai banale, potente e qua e là profondo possa diventare un’arma di primordine. Rimane comunque il dispiacere per la mancanza (probabilmente imputabile in parte anche a lui, come raccolto dai soliti bene informati) ad oggi, di un album che ne metta a fuoco per intero la dimensione che, anche se quasi sicuramente non sarà quella definitiva, ne certifichi la maturazione mettendone in luce la capacità o meno di essere un leader, visto che le premesse non sembrano mancare.
Garry Burnside
37enne figlio di R.L., di cui pubblicammo le parole che raccogliemmo in Italia e negli Stati Uniti nei numeri 105 e 121, è personaggio che ha attraversato obliquamente gli universi di Jr. Kimbrough (con cui condivise il palco al Delta Blues di Rovigo nel 1993) e successivamente quelli di molti altri discendenti del blues delle colline (North Mississippi Allstars, Hill Country Revue, etc.), cercando sempre spunti per mescolare il blues delle origini con le pulsioni moderniste, fossero esse quelle rock, pop o funky. Sebbene siano state rare sinora le occasioni sia di ascoltarlo in concerto che tramite registrazioni discografiche, possiamo provare a tracciarne un breve profilo. Tre sono state le opportunità concertistiche che Garry ci ha concesso. La prima nel 2003 al The Junction, un locale fuori Clarksdale, Mississippi, dove in trio e sotto il nome di Burnside Exploration ci fece ascoltare, accompagnato da Kinney Kimbrough alla batteria e Eric Deaton alla chitarra/basso, lo stato di avanzamento dei lavori della loro esplorazione. In effetti ascoltammo del rock-blues non disprezzabile, in cui era già possibile cogliere le differenze del chitarrismo di Garry, cattivo e distorto, da quello di Eric decisamente più vicino agli stilemi blues.
La seconda volta fu all’edizione del 2008 del Rootsway, allorchè Garry sostituì al basso Chris Chew nella formazione dei NMAS, ma che, allorchè Luther Dickinson gli offrì la chitarra in cambio del basso, trasse dalla sei corde uno stravolgente strumentale che ci fece capire quanto la sua anima fosse tormentata e quanto gli venisse naturale trasmetterlo. Il terzo incontro lo avemmo nel 2009 a Memphis al Ground Zero, quando ci imbattemmo in lui quale seconda chitarra/bassista dello zio Kent Burnside, e l’impatto ci consegnò Garry (con una sola r o due è sempre lui…) nuovamente in bilico tra l’anarchia personale e la funzione da tenere a favore del lavoro di gruppo. La stessa situazione è quella che scaturisce dall’ascolto di The Record (Lucky 13-1333) del 2005 (Il Blues n. 96), attribuito ai Burnside Exploration, ovvero Garry & Cedric Burnside, alias zio e nipote, in quanto chiudevamo la recensione non in maniera negativa, anzi aprendoci a quegli spiragli che ci suggerivano un futuro da giocare. Anche per lui, a parte le questioni caratteriali che come per Duwayne sembrano essere insormontabili e che quindi ne limitano la potenza discografica e di conseguenza quella commerciale, ci sono doti notevoli che aspettano solo di essere inquadrate.
Cedric Burnside
Nipote di R.L., in quanto figlio del genero e batterista Calvin Jackson che, quando nel 1994 abbandonò la band per trasferirsi in Olanda fu proprio lui a sostituire, si sta dimostrando il più eclettico degli eredi Burnside. Nonostante fosse andato in tour con il nonno e seduto dietro i tamburi a soli 13 anni, ed aver messo a disposizione il suo stile di batterista a ‘quasi’ tutti da Memphis in giù per almeno 15 anni, Cedric, dopo il fortunato esperimento in duo con Lightnin’ Malcolm, in cui entrambi ricalcavano le orme originariamente da loro stessi calpestate, ha deciso di cercare nuove strade espressive e lo ha fatto concretamente, imbracciando la chitarra, così come ci aveva anticipato quando lo intervistammo (Il Blues n.100). Ma il cambiamento non consiste unicamente nell’inserimento dello strumento a sei corde, ma fondamentalmente nel mutamento musicale intercorso. Infatti con The Way I Am (Il Blues n.118) riunisce un paio di Burnside (Garry e Cody), a cui aggiunge un altro paio di ospiti e si spinge alla ricerca della sua dimensione di chitarrista, senza per questo dimenticarsi della batteria e del canto. Se per quanto riguarda il ‘manico’ i lavori sono in corso, con le eccezioni riuscite della title track e Sweet Thang, alla parte migliore, che rimane come logico quella di batterista, va aggiunta quella di compositore, visto che è autore del 90% dei brani. Comunque sia, Cedric non demorde. Due anni dopo, 2011, con Bernard Allison, altro figlio d’arte, dà alle stampe Express, dove prosegue il suo viaggio verso il futuro spingendo sul canto (molto bene), accantonando la batteria e limitando la chitarra a due sole tracce. Opera interlocutoria anche questa, a cui fa seguire Hear Me When I Say, in compagnia tra gli altri del cantante e chitarrista Trenton Ayres che l’aveva già assistito in Express, ma in cui, nonostante si faccia carico di comporre 10 dei 12 brani presenti, sembra che l’ardore spontaneo si sia in parte liquefatto a favore di un ‘simpatico’ rock blues d’annata. Eppure la storia di Cedric non finisce qui. Ne Siamo convinti. Altre frecce al suo arco attendono solo di essere lanciate, nonostante il tempo dimostri quanto sia difficile, se non impossibile, staccarsi completamente da quelle radici profonde che nonno R.L. ha, volontariamente o meno, fatto germinare in lui.
Kent Burnside
Terminiamo questa retrospettiva partendo proprio da colui che in fondo l’ha generata: Kent Burnside, Memphis 1971, nipote anche lui di R.L.. Avemmo la fortuna di ascoltarlo il 6 febbraio 2009 al Ground Zero di Memphis, ed il concerto, pur senza punti stravolgenti o forzature ad uso turistico, possedeva una sua certa originalità, che scaturiva anche dalla presenza, niente affatto superflua, di un violinista in grado di svariare le sonorità intelligentemente, ovvero senza invecchiare il suono ma innestandovi invece quella dose di attualità stimolante. Siccome la stessa sensazione la ricavammo sia dall‘ascolto della sua terza autoproduzione Evil (Il Blues n.108), che dall’intervista realizzata all’Hill Country Picnic due anni dopo (esemplare quando risponde, riferendosi alle nuove generazioni, che «il blues non è solo una musica per vecchi ma può benissimo essere anche la loro musica» – Il Blues n.120), la curiosità attorno al suo nuovo prodotto discografico si ravvivò allorchè scoprimmo che corrispondeva al ritorno sul mercato dell’etichetta Lucky 13. Guidata da Scott Hatch, che a suo tempo fu il solo a scommettere sul nuovo blues nero giovane delle colline, pubblicando nel 2005 l’unico disco dei Burnside Exploration (di cui già vi parlammo nelle schede di Garry e Cedric), e sotto il nome di B.C.Records quello di David Kimbrough Jr. (2006) e Duwayne Burnside (1998 e 2005), ora tenta di riproporre un altro personaggio del giro di Holly Springs e dintorni, confidando in una miglior fortuna ed assumendosi un controllo sull’operato dei musicisti più da vicino rispetto a quello usato in passato.
Conclusioni…
In realtà non ne abbiamo…ma non ne vogliamo neppure fare, perché crediamo che dopo tutte le parole spese ci siamo resi conto che i fatti che vi abbiamo narrato, se non sempre hanno una risposta, hanno il pregio di suscitare nuovi interrogativi che desideriamo unicamente condividere con voi.
L’unica cosa certa è che non c’è niente di sicuro nell’evoluzione del North Mississippi Hill Country Blues. I ‘padri’, al secolo R.L.Burnside e Jr. Kimbrough, non hanno inventato nulla. Hanno avuto solo (attenzione all’importanza di quel ‘solo’) il coraggio di prendere la musica che era stata a loro tramandata ed immergerla nella acque di un Léte al contrario, che anzichè far dimenticare ha fatto vedere loro come darle un futuro su due binari diversi ma paralleli, e quindi entrambi in grado di soddisfare comunque il desiderio di musica delle giovani generazioni. Che poi la spinta di Burnside corresse più verso il Delta Blues elettrificato e quella di Kimbrough verso le matrici africane, si rivelò, senza volere, una grande cosa, in quanto permise un doppio sbocco a chi era alla ricerca di nuovi stimoli. Rimane il fatto, incontestabile, di ciò che la loro musica ha finito per rappresentare ad almeno un paio di generazioni, bianche e nere, a cavallo tra il XX° ed il XXI° secolo.
Se tuttociò è acclarato, ci rimane da gettare il nostro guardo sui personaggi che costituiscono la nostra retrospettiva. La prima considerazione, che abbiamo già copiosamente sparso qua e là in questo articolo, è come i discendenti di R.L. non intendano seguire pedissequamente le sue orme. Hanno ragione, in quanto ognuno deve esprimere le proprie idee con la sensibilità che possiede, il tutto in sintonia con i tempi che sta vivendo. Ma è altrettanto ovvio che mutazioni di questo genere, se sono difficili per un musicista qualunque, potete immaginare quanto debbano essere complicate per chi ha trascorso l’intera esistenza immerso in una dimensione musicale ed umana come quella della ampia ‘famiglia Burnside’. Se a ciò aggiungiamo il fatto che siamo stati abituati a pensare alla musica come un mondo in continua evoluzione, mentre oggi stiamo vivendo un periodo dominato da un offerta sempre uguale che si affida alla continua e facile riproposizione del passato, rischiando in tal modo di condurre ad un esaurimento graduale della creatività. Se fosse proprio così, allora potremmo capire meglio, al di là dei problemi caratteriali di ognuno di loro, le difficoltà che i Burnside hanno vissuto e stanno vivendo. Come spiegare, altrimenti, la mancata affermazione di Duwayne e di Garry, al di là delle proprie doti a volte esasperate attraverso contesti sonori personali ma aggrovigliati, che possono rendere più difficile, vista anche la loro poco propensa capacità gestionale, i rapporti con il music biz?
Il discorso muta in parte quando affrontiamo Cedric e Kent. Il primo ha già vissuto, più o meno positivamente, esperienze diverse, ma è ancora alla ricerca, e su ciò non demorde dimostrando forza d’animo notevole, di quel se stesso che faccia di lui quell’unicum inconfondibile. Kent, invece, sta giocando la carta californiana, e cioè cercare una formula combinatoria tra il blues delle colline e le sonorità della West Coast, in cui il primo non venga svilito ma rimanga sempre quale impronta di una realtà umana e musicale a cui tutta la musica deve molto più che le briciole e qualche premio opaco o lucido che sia. Il tempo è con loro…ed a qualcosa devono approdare perché se no «…va a finire che non si cambia mai, e il mai va cambiato prima che cambi noi» (Alessandro Bergonzoni – Il Venerdì di Repubblica n. 1365).
Marino Grandi, fonte Il Blues n. 127, 2014