Ripercorrere la traiettoria musicale di Van Ronk vuol dire tornare indietro agli anni Cinquanta ad un’America che recuperava un interesse per la musica di matrice folklorica e per un ambiente, quello di New York o meglio del Greenwich Village. Sono gli anni successivi alla guerra di Corea, gli anni del maccartismo e della beat generation, dell’Anthology Of American Folk Music (1952) di Harry Smith e di On The Road di Kerouac (1957). La sua è una figura che non ha mai raggiunto particolare notorietà, nemmeno postuma, essendo scomparso nel 2002. Un risveglio di interesse lo si è riscontrato quando i fratelli Coen si sono, almeno in parte (le differenze restano sostanziali), ispirati a lui per schizzare il protagonista del loro Inside Llewyn Davis (2013), A proposito di Davis, nella versione italiana), interpretato da Oscar Isaac. Un effetto positivo del film però è stata la traduzione in italiano della biografia, curata dal suo amico Elijah Wald, uscita postuma, da parte della BUR, col titolo di Manhattan Folk Story (in originale The Mayor Of McDougal Street (DaCapo 2005). Da essa emerge un racconto di prima mano, centrato in particolar modo sugli anni fondativi del Greenwich Village e di quel periodo che lui denominava ironicamente ‘the great folk scare’ prendendo a prestito una espressione del suo amico Utah Phillips (noto folksinger, poeta e attivista). Classe 1936, nativo di Brooklyn, Van Ronk cresce al Queens, lascia la scuola a quindici anni e finisce per passare un periodo nella marina mercantile.
Si interessa molto presto alla musica, iniziando a suonare ukulele, banjo e poi la chitarra in jazz band, amava Jelly Roll Morton, King Oliver, Louis Armstrong, «volevamo suonare a tutti i costi e…suonavamo davvero male!» racconta lui. Poi comincia a frequentare il Village e ad interessarsi al country blues e alla musica folk. Allora si suonava la domenica pomeriggio al Washington Square Park e lui si convertì in poco tempo al fingerpicking, soprattutto ispirato da Tom Paley (poi fondatore dei New Lost City Ramblers). Come tanti colleghi si era immerso nell’ascolto dell’Anthology di Harry Smith, «senza di essa non saremmo esistiti, non avremmo avuto accesso a quel materiale». Tra i suoi riferimenti principali c’è Reverend Gary Davis, per il suo suono articolato e completo, un approccio che pensa la tastiera della chitarra come quella di un pianoforte, per passaggi armonici e varietà ritmica. Si ispirava anche a chitarristi quali Scrapper Blackwell, Furry Lewis o Josh White e conosce altri musicisti sulla scena in quel periodo come Odetta, che lo incoraggia a fare della musica il suo mestiere, Josh White, Sonny Terry & Brownie McGhee, Bob Gibson o Paul Clayton. Nel giro di pochi anni aprono una serie di piccoli locali, caffetterie e bar, per lo più, che cominciano ad ospitare concerti dei folksinger, tra i primi ci furono il Cafe Bizarre e il Gaslight entrambi aperti dal 1958, qualche tempo dopo si aggiunsero anche il Cafe Wha e il Gerde’s Folk City. In più c’erano quelle che venivano chiamate basket house, localetti in cui i musicisti non venivano pagati ma appunto veniva passato un cesto per le offerte dai presenti.
Fu il Gaslight, gestito dal sanguigno John Mitchell a diventare la seconda casa di Dave, un seminterrato su MacDougal Street. C’erano anche club dove erano soliti esibirsi i jazzisti, come il Bitter End e il Village Gate, artisti quali Modern Jazz Quartet, Thelonious Monk, John Coltrane o Nina Simone. Van Ronk possedeva destrezza e applicazione, in più aveva una voce tonante, espressiva, non dava la sensazione di imitare un bluesman del Sud, quanto piuttosto di cercare una sua credibile chiave interpretativa. Non era un autore prolifico, era persino restio a registrare cose sue se non le riteneva all’altezza dei tanti pezzi classici che ben conosceva, un aspetto questo che lo accomuna ad un altro giovane bianco appassionato di blues, John Paul Hammond. Entrambi si sentivano, probabilmente, anelli di una tradizione. Un’altra figura che ha incrociato la strada di Van Ronk sin dalla seconda metà dei Cinquanta è Sam Charters. L’autore nel 1959 del primo testo significativo in ambito blues, The Country Blues e produttore di dozzine di album nelle decadi successive, ha fatto parte con l’amico Dave persino di una jug band, i Ragtime Jug Stompers ed ha curato la produzione di diversi suoi album, persino per la sua etichetta Gazell negli anni Ottanta. Il 1959 è anche l’anno del vero e proprio esordio da solista del nostro, con un album per la Folkways di Moe Asch, Sings Ballads, Blues And A Spiritual, prodotto da Kenneth Goldstein, di cui peraltro Dave non è molto soddisfatto.
La lettura del suo libro è il metodo migliore per rivivere quegli anni, divertente, disincantato, ricco di storie ed incontri, rivelatore di un ingegno acuto e anticonformista. Van Ronk era un vero bohemien, carismatico e appassionato, amante della cucina e della letteratura, specie di fantascienza, di storia e di politica. Fece persino parte di un gruppo socialista trotskista per un periodo. «Dave conosceva la storia dietro ogni cosa e sapeva raccontarla con aplomb e un senso di verità che cancellava le altre versioni», ha scritto Suze Rotolo nel suo libro di ricordi, A Freewheelin’ Time (In Italia edito dalle Edizioni Caissa), lei che all’epoca era la ragazza di Dylan. Non ha mai ceduto alle lusinghe del rock e neppure agli aspetti più leggeri del folk. Teniamo presente che, come scrive lui stesso, «prima del folk boom e della sua commercializzazione, si tendeva ad identificare il folk non con un genere ma con un processo, una cultura dell’oralità, trasmessa da cantante a cantante in comunità differenti». Invece l’aspetto commerciale del folk revival spostava l’oggetto verso la nostalgia un po’ romantica di un passato vagheggiato e puro. Dave era conscio che le categorizzazioni dell’industria discografica sovente finivano per essere un espediente di marketing applicato ad artisti che magari con la musica folk avevano poco a che fare, se si eccettua forse il suonare una chitarra acustica.
In possesso di un repertorio molto vasto, in sostanziale continuità, disco dopo disco, che abbracciava standard jazz, blues, ragtime e qualche spiritual. Citiamo le sue versioni di Dink’s Song, Green Rocky Road, God Bless The Child o Candy Man , credibili e piene di rispetto. I suoi arrangiamenti di materiale derivato da altri hanno sovente fatto scuola. Un caso emblematico è Cocaine Blues legata, evidentemente anche nell’immaginario dei musicisti a lui. Racconta ad esempio di essersi imbattuto per strada in Jackson Browne a metà anni Settanta. Browne gli dice di aver appena inciso una sua canzone, Cocaine Blues, (su Running On Empty) pensando di fargli piacere, al che Dave gli risponde caustico che in realtà è di Gary Davis. Hesitation Blues tutti la conoscono nell’interpretazione degli Hot Tuna, ma Dave l’aveva incisa quasi dieci anni prima. Come Back Baby, lui racconta di averla a sua volta appresa da Dave Woods, è stata rifatta da tanti quasi nota per nota, uno di essi è Eric Bibb, cresciuto in quello stesso milieu grazie al padre Leon, folksinger a sua volta.
Folk Revival
L’inizio degli anni Sessanta vede il Greenwich diventare davvero l’epicentro della musica folk, non solo di New York, ma da altre parti d’America arrivano musicisti o aspiranti tali, pensiamo a Phil Ochs dall’Ohio, Mark Spoelstra dalla California, Karen Dalton dall’Oklahoma, Carolyn Hester dal Texas e colui che sarà destinato a grandi cose, un imberbe ragazzino del Minnesota, Bob Dylan. Nel suo memoir atipico Chronicles (Feltrinelli) su Van Ronk scrive, «Quando ero ancora nel Midwest avevo sentito alcuni suoi dischi e pensavo fosse davvero grande, avevo anche imparato alcune delle sue incisioni frase per frase. Era appassionato e mordace, cantava come un soldato di ventura e sembrava uno che l’avesse pagata cara. Sapeva gridare e sussurrare, trasformare i blues in ballate e le ballate in blues. Il suo stile dava il senso della città. Lì al Greenwich Village era il re della strada, vi regnava supremo». Ed in effetti il ruolo di Dave è centrale, un riferimento per tanti colleghi musicisti Dave nel giro di un paio d’anni, si trovò ad essere la figura di riferimento per una serie di colleghi pensiamo a Eric Von Schmidt, Tom Rush, Fred Neil, Danny Kalb, Koerner, Ray & Glover, tutti più o meno direttamente debitori verso il suo modo di interpretare blues e folk. I suoi dischi escono a ritmo regolare per Folkways, Prestige e poi Verve, Polydor e Cadet. La musica tradizionale si conquista un posto tra gli studenti dei college e dal 1959 si tiene un evento importante è il Newport Folk Festival (anche se saltarono le edizioni del ’61 e ’62). Di esso si occupava Albert Grossman, già proprietario del Gate Of Horn a Chicago e allora manager di Odetta (in futuro lo sarà di Dylan).
Grossman ebbe l’idea di mettere insieme un trio e chiese a Van Ronk di prendervi parte, ma Dave rifiutò, tra i due c’era una certa ostilità dopo una fallimentare audizione di qualche anno prima (l’episodio è ricostruito nel film dei Coen). Il trio venne chiamato Peter, Paul and Mary, il posto di Dave fu preso da Noel Stookey, subito ribattezzato Paul per l’occasione ed ebbe parecchio successo. E’ il periodo in cui vengono riscoperti Son House, Bukka White, Skip James o Mississippi John Hurt. Dave ha modo di conoscere da vicino quest’ultimo e racconta alcune storie buffe su di lui. Una riguarda il modo di suonare di Spike Driver Blues, quando Van Ronk la fece ascoltare a Hurt, John gli fece notare che eseguiva i bassi al contrario, ma aggiunse, di continuare a suonarla così perché era bella lo stesso. «Ecco spiegato il processo folklorico» chiosa Dave, «qualcuno la chiama creatività, ma in realtà sono errori». Fu forse una stagione di breve durata, ma di indubbia importanza. Due curiosità, in primis che la maggior parte dei musicisti folk fossero bianchi (un paio di eccezioni sono Richie Havens e Len Chandler); la seconda che presto molti, anche sulla scia del successo Dylan, provarono ad essere cantautori, non solo interpreti, con alterne fortune. Van Ronk attraversò tutto questo si può dire senza alterare il suo modo di fare musica, l’unica sua incursione in territori quasi folk/rock fu l’episodio su Verve alla testa di un gruppo chiamato Hudson Dusters (1967)
Dylan
I due fanno amicizia in un altro posto chiave, il Folklore Center di Israel ‘Izzy’ Young, una vera istituzione per tutti i musicisti del Village. Aperto nel 1957, al 110 di McDougal Street, pieno di strumenti, dischi, libri, il centro divenne rapidamente un punto di ritrovo, scambio di informazioni e persino un piccolo club, dove suonavano musicisti che faticavano a trovare ingaggi altrove. «Tra noi scherzavamo sempre sul fatto che in realtà Izzy non vendeva mai niente!» ha scritto Van Ronk. Izzy, procurò a Bob Dylan il primo vero concerto il 4 novembre 1961 al Carnegie Chapter Hall con solo cinquantatré spettatori. Su di lui si può vedere su youtube il documentario Talking Folkore Center, intitolato come una canzone di Dylan, cantata sui titoli di testa da Eric Bibb, (Young si era trasferito in Svezia, aprendo nel ‘73 a Stoccolma, un altro Folklore Center aperto fino alla morte lo scorso anno). Dylan in Chronicles riconosce apertamente il suo debito nei confronti di Van Ronk e ne parla in termini inequivocabili. Ammette di aver attinto una buona metà del materiale per il suo esordio su Columbia nel ’62, dal repertorio di Dave. Celebre la querelle su House Of The Rising Sun, incisa da Dylan nell’arrangiamento dell’amico, ma senza il suo consenso, lo rievoca lo stesso Van Ronk nel film di Scorsese No Direction Home, in cui viene ripercorsa tutta quella fase del tragitto dylaniano. Dylan sa che quel periodo cerniera al Village lo ha formato e senza di esso non avrebbe probabilmente rivoluzionato tutto qualche tempo dopo. Il giovane Bobby, come lo chiama quasi sempre Dave, finì per passare molte notti a dormire sul divano di casa Van Ronk e Terri Thal, allora moglie di Dave, gli fece da manager aiutandolo a trovare ingaggi nei locali. Seppur qualche anno dopo i rapporti Dylan e Van Ronk si raffreddarono, la stima non è mai venuta meno e dai rispettivi libri emerge senza mezzi termini. «Era come se possedesse un’infinita riserva di veleno e io ne volevo un po’, non riuscivo a farne a meno» (ancora da Chronicles).
La strada prosegue
Negli anni Settanta la scena musicale a New York era cambiata parecchio, alcuni locali come il Gaslight (non prima però di ospitare Fred McDowell per uno storico Live), chiusero e i gusti del pubblico era diversi. Dave si adatta senza cambiare il suo stile, tra lezioni di chitarra, qualche disco e i concerti, seppur un po’ disilluso dall’ambiente musicale, riusciva anche ad allargare il suo bagaglio di musicista. Restava pronto a sostenere una buona causa, come il concerto denominato An Evening for Salvador Allende organizzato dal Phil Ochs nel 1974. Molti altri musicisti bianchi presero a suonare blues acustico di cui è stato pioniere, pensiamo a Paul Geremia, Roy Bookbinder, Stefan Grossman. Negli Ottanta ricominciò a viaggiare assiduamente, venne anche in Italia dove nel 1983 incise persino un album per il Folkstudio, In Rome e due anni dopo gli fu assegnato il premio Tenco. Ormai considerato una figura tutelare anche per i folksinger della generazione successive, Dave ha continuato a suonare e incidere, secondo i suoi ritmi, si risposò con Andrea Vuocolo, rimastagli al fianco fino alla sua scomparsa nel 2002. Per usare ancora le parole di Dylan, «Torreggiava sulla strada come una montagna, eppure non sarebbe mai riuscito a ottenere un grande successo. Non ci teneva particolarmente. Non voleva fare troppe concessioni. Mai il burattino di nessuno»(Chronicles). Un incrocio della strada dove abitava, attorno a Sheridan Square, è stata rinominata Dave Van Ronk Street nel 2004.
Le incisioni
La discografia di Van Ronk pur identificato di solito come un cantante di blues, risulta in realtà molto più variegata, costellata di episodi fuori dagli schemi come un disco di canzoni di Brecht/Weill, uno di canzoni di marinai, due con una jug band, interpretazioni di Jacques Brel o classici swing e più avanti anche un disco per bambini con la rilettura di Peter And The Wolf. Selezionando tra le cose più interessanti per il bluesofilo, partiamo dal periodo su Folkways, ben riassunto dal triplo box Down In Washington Square, pieno di chicche e di inediti dal vivo, oltre ad un libretto ricchissimo di informazioni. In una saldatura ideale si passa dal primo con, ad esempio una versione di Ain’t No Grave Can Hold My Body Down(’58), all’ultimo Van Ronk, ci sono infatti anche cinque brani della sua ultima session in studio nel 2001, tra cui un suo arrangiamento della dylaniana Buckets Of Rain. Folksinger e Inside Dave Van Ronk (la cui copertina è presa in prestito dal film dei Coen) entrambi usciti su Prestige, vennero raggruppati in un solo CD dalla Fantasy nel 1989 e meritano senza dubbio di essere ascoltati.
In un periodo (fine dei Settanta) in cui aveva smesso di andare in tour, sono senz’altro consigliabili i due LP editi dalla Philo, molto bello in particolare Sunday Street e Somebody Else Not Me, solo voce e chitarra con la consueta maestria offre il suo repertorio di classici blues e jazz, più qualche ripresa di Dylan, Joni Mitchell e Tom Paxton. Ricordiamo infine anche Going Back To Brooklyn, uscito inizialmente nel 1985 e ristampato prima da Gazell (Il Blues n. 43) e poi da Hightone, l’unico album costituito solo da materiale autografo. Infine, tra le molte testimonianze dal vivo, scegliamo l’ultimo concerto, tenuto nell’ottobre 2001, due giorni dopo aver saputo la diagnosi di cancro al colon che se lo sarebbe portato via nel febbraio dell’anno dopo. Il concerto venne pubblicato dalla Smithsonian Folkways nel 2004 col titolo … and the tin pan bended, and the story ended…. Una tipica performance di Dave, tra storie e canzoni, con un solo bis, «perché bisogna sempre lasciare il pubblico ancora in attesa di altro». Lo vogliamo ricordare anche riascoltando lo strumentale accorato intitolato, ça va sans dire, MacDougal e composto in suo onore da Kelly Joe Phelps dal suo Tunesmith Retrofit(2006).
Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 151, 2020