Parlare di Joan Baez significa molto spesso collegare istintivamente la musica con l’impegno politico. E’ stato proprio questo binomio infatti che ha in buona parte permesso la nascita di una sorta di mito che dura ormai da venticinque anni e che ha portato la Baez ad assurgere al ruolo di paladina della protesta. Vederla oggi in concerto però non è più la stessa cosa di un tempo; ciò che se ne ricava è una sensazione emotiva molto più attenuata, costantemente in bilico tra il ricordo di un passato spumeggiarne e un presente purtroppo non più esaltante.
Anche se rimane da valutare fino a che punto influisca in tale giudizio l’età di chi scrive e l’oggettivo mutamento del contesto sociale con il senno di poi si può forse azzardare a dire che, nonostante i suoi sinceri schieramenti politici contro la guerra nel Vietnam o contro la segregazione dei neri, si ha a che fare con un personaggio tipicamente americano che si sente in dovere di denunciare un sistema che non funziona senza, in realtà, pensare mai di cambiarlo veramente.
Nata nel 1941 in una famiglia borghese da madre scozzese e padre messicano, che aveva abbandonato la chiesa cattolica per diventare pastore metodista, la Baez ebbe in qualche modo un’educazione illuminata. Fin da piccola fu avviata dai genitori allo studio del pianoforte, ma ben presto gli interessi per la musica folklorica si fecero prioritari e i suoi sforzi si concentrarono sulla chitarra.
Venne alla ribalta nei primissimi anni Sessanta, quando le strade del Village cominciarono a popolarsi di quella nuova generazione di folksingers che avevano direttamente ereditato lo spirito del primo folk revival e cominciò, come chiunque allora avesse velleità di musicista, ad esibirsi nelle coffee-houses e nei locali alternativi di New York come il Club 47 e il Golden Vanity. Apparve per la primissima volta in pubblico nel 1958 in un concerto a Boston. Fu però l’anno seguente, grazie alla partecipazione al Festival di Newport, che ottenne il successo e i riconoscimenti generalizzati che la convinsero a continuare nel mestiere di musicista.
Erano contemporaneamente gli anni in cui gli ultimi echi della beat generation istigavano a riflessioni esistenziali e le lotte dei neri per il riconoscimento dei diritti civili mostravano la ruggine della ‘way of life’ democratica americana. In quel vivacissimo contesto la Baez rimase probabilmente influenzata da entrambe le problematiche e fece propri alcuni valori di estremo interesse come l’obiezione alla coscrizione militare obbligatoria ed altri temi legati alla non violenza.
Ma la Baez cominciò con un repertorio che era simile a quello di decine di altri musicisti; la peculiarità che forse la contraddistingueva era l’assoluta fedeltà ai canoni ripropositivi della tradizione che nei primi anni della sua carriera fu l’unica sua fonte ispirativa. Joan Baez infatti nei suoi primi quattro albums interpreterà solamente ballate proprie della cultura anglo-americana e della tradizione nera, concedendo al solo Dylan di prestarle la splendida Don’t Think Twice, It’s All Right.
La dimensione fantastica e magica di certa tradizione anglosassone, fatta di storie regali e principesche, quando varcò l’oceano trovò in America una certa difficoltà a mantenere la sua identità. La realtà quotidiana del nuovo mondo era troppo diversa da quella inglese e così i ruoli di certi personaggi vennero capovolti o reinventati. Nobiluomini e servi si trasformarono in sceriffi e fuorilegge, le storie d’amore deluso trovarono un epilogo ancora più cruento, e in genere era lo stesso uomo tradito o rifiutato che vendicava da sé l’onta subita.
Questi personaggi, che sono andati via via a costituire la tradizione popolare musicale americana, erano parte del materiale preferito delle canzoni di Joan Baez che tuttavia non disdegna di affrontare le versioni originali e di pescare addirittura nelle ‘Child Ballads’, in parte addirittura di origine colta o semicolta ma plasmate da tempo e omogeneizzate nella cultura popolare.
Le ‘Child Ballads’, lo ricordiamo, prendono il nome dal ricercatore Francis James Child di Harvard che giudicò autenticamente tradizionali 305 ballate britanniche che puntigliosamente numerò e che tuttora vengono identificate con la stessa nomenclatura.
La sua opera è racchiusa in cinque volumi che vanno sotto il nome di The English & Scottish Popular Ballads (1882-1898). Brani come Geordie, Barbara Allen, Mary Hamilton, Matty Groves e House Carpenter sono regolarmente presenti nella discografia ufficiale di Joan Baez. La Baez da questo punto di vista ha avuto il grosso merito di aver riproposto diffusamente un patrimonio culturale importantissimo e di aver contribuito a sviluppare un ulteriore interesse nei confronti della tradizione popolare.
Le sue versioni, come già detto, sono molto sobrie e attente e hanno in parte rappresentato una specie di mediazione tra l’originale spesso dimenticato (del resto proprio perché si tratta di tradizione il brano smette di essere patrimonio del suo creatore e diventa funzione del rimaneggiamento popolare attraverso gli anni) e un revival spoglio di sovrastrutture.
L’accompagnamento è in genere scarno, spesso essenziale; nei primissimi lavori su disco si avvale a volte dell’aiuto di una seconda chitarra, ma molto più spesso è lei da sola a sostenere l’intera interpretazione. La chitarra è generalmente suonata con un tradizionalissimo finger-picking, spesso a bassi alternati; altre volte lo strumento rappresenta solo un pretesto su cui inserire la splendida voce in grado di coprire le più diverse tonalità.
Ed è proprio e soprattutto la completezza vocale della Baez ad esercitare fascino immediato sull’ascoltatore; una voce schietta, pulita che forse non avrebbe mai potuto sostenere l’impatto ambiguo del rock che per sua natura esige timbri più aspri, ma perfettamente adeguata alla tradizione folk che sa invece riprodurre con grande dolcezza.
Ma verso la metà degli anni Sessanta lo stretto legame con la tradizione comincia a non essere più prioritario. Gli albums Joan Baez 5 e soprattutto Farewell Angelina, che prende il nome da una canzone scritta appositamente per lei da Bob Dylan e riproposta per anni come prologo di ogni suo concerto, usciti rispettivamente nel ’64 e ’65, sono essenzialmente costituiti da brani del sempre più emergente Dylan (It Ain’t Me Baby, Mama You Been On My Mind, It’s All Over Now Baby Blue e A Hard Rain’s A-Gonna Fall), di Phil Ochs (There But For Fortune), di Pete Seeger (Where Have All The Flowers Gone) e di altri personaggi sia americani che europei che in quegli anni si dedicano alla canzone di protesta come Richard Farina, divenuto poi suo cognato, e Donovan di cui inciderà Colours.
Sempre in questo periodo esce anche una sorta di biografia: Daybreak tradotta in italiano con il titolo “Saresti imbarazzato se ti dicessi che ti amo?”, l’ultima frase del libro, che traccia abbastanza bene il suo credo non violento. Si fa sempre più strada l’idea di una fraternità primordiale, di un amore incondizionato che sarebbe possibile con il placarsi dell’aggressività e la caduta del sospetto; una concezione utopica che la Baez tutto sommato porta avanti ancora oggi.
Un’ottica in cui un cattolicesimo di fondo prevale sugli aspetti più radicali e che, nella lotta al fianco della gente di colore oppressa, si avvicina ideologicamente molto più a quella di Martin Luther King che non a quella di Malcom X.
Gli albums successivi perdono via via di interesse dal punto di vista tradizionale e le ballate popolari sono ormai una rarità. Prende sempre più piede invece la tendenza a riproporre brani già lanciati da altri: nel suo repertorio entrano canzoni dei Beatles, dei Rolling Stones, di Paul Simon e solo qualche volta scritte direttamente da lei.
La Baez si trasforma completamente man mano che passano gli anni fino a diventare una specie di cantastorie in grado di omaggiare gli autori pacifisti di tutto il mondo. In ogni tournée che intraprende oltre alle canzoni che ha in programma dedica costantemente un piccolo scorcio di spettacolo ai pezzi di qualche artista particolare del Paese in cui si trova e alla fine incornicia il suo concerto con bis storici, come We Shall Overcome, che sentiti oggi hanno un vago sapore di stantio e retorico tipico del resto di tutte le tematiche che in vent’anni di storia hanno cambiato senso e strategia.
La Baez oggi è diventata una signora, una bella ed elegante signora che con le sue canzoni fa rivivere un po’ di passato e a suo modo da un po’ di fiducia per il futuro. Rimane comunque una grande artista che pur avendo perduto un bel po’ di carisma per strada è ancora in grado di fare spettacolo e attirare ai suoi concerti migliaia di persone.
Di questi tempi, si sa, i miti sono sempre più difficili da sostenere.
Discografia consigliata:
-Vanguard 33001, Joan Baez, I
-Vanguard 33002, Joan Baez, II
-Vanguard 33003, Joan Baez In Concert
-Vanguard 33004, Joan Baez In Concert, II
-Ricordi ORL-8194, Joan Baez, V
-Vanguard 33006, Farewell Angelina
-Vanguard 33007, But Hear Me
-Vanguard 33009, Joan
-Vanguard 33016, One Day At A Time
-Vanguard 33015, David’s Album
oppure per chi volesse affidarsi alle raccolte:
-Vanguard 33008, Portrait
-Ricordi AORL-28355, Any Day Now
-Ricordi AORL-28356, The First Ten Years
-Ricordi AORL-28344, Ballad Book
Roberto Caselli, fonte Hi, Folks! n. 8, 1984