Da qualche tempo a questa parte il banjo, il five-string banjo, sta conoscendo una nuova ennesima giovinezza. Strumento dalla forma curiosa e dal suono accattivante, circondato da un alone di mistero, a cominciare dalle sue origini, e da una ricchissima aneddotica, il banjo in barba agli anni ed alle mode è di nuovo sulla cresta dell’onda con uno dei suoi classici ritorni ciclici. A scadenze pressoché regolari ogni vent’anni è puntualmente presente in mano a particolari virtuosi delle musiche più disparate – è riuscito di recente addirittura ad intrufolarsi in un album dei Violent Femmes, acclamatissima band del ‘nuovo rock’ americano – tenendo fede alla sua nomea di ‘strumento del diavolo’. Ricordiamo brevemente queste tappe storiche rimandando l’approfondimento ad un prossimo articolo.

Intorno al 1830 il virginiano Joel Walker Sweeney introduce la famosa quinta corda ad uno strumento, si suppone, di provenienza africana; durante e dopo la guerra civile entrano in scena gli spettacoli di minstrel, più o meno ambulanti, i cui eroi bianchi e di colore usavano regolarmente il five-string; tra la fine del 1800 e l’inizio del nostro secolo il banjo accompagna il ragtime ed il vaudeville (c/o Fred Van Eps, Vess L. Ossman ecc); è uno dei protagonisti della rivoluzione discografica degli anni Venti e Trenta che coinvolge la musica tradizionale nordamericana (c/o Uncle Dave Macon, Charlie Poole ecc); partecipa alla creazione ed al consolidamento del bluegrass alla metà degli anni Quaranta (Earl Scruggs, Ralph Stanley, ecc); ritorna prepotentemente in auge con gli stili più arcaici all’apparire del folk-revival dal 1950 al 1960 (Pete Seeger, Kingston Trio ecc); lo ritroviamo oggi più vivo che mai nella maggior parte delle incisioni di otm e bluegrass.

A qui noi interessa il banjo old time e, escludendo le incisioni storiche e le registrazioni sul campo di materiale tradizionale, è d’obbligo citare due albums fondamentali per la diffusione dello strumento in ambienti urbani: Folk Banjo Styles (Elektra EKL-7217) e Old Time Banjo Project (Elektra EKS-7276). Usciti alla fine degli anni Sessanta, questi dischi ebbero un impatto notevolissimo sulle nuove generazioni sia per la genuinità del contenuto (in un periodo gravido di mistificazioni), sia per la rispettabilità dei musicisti coinvolti (Tom Paley, Art Rosenbaum, John Cohen, Bill Vanaver, Bob Siggins, Hank Schwartz, Peter Siegel, Winnie Winston ecc), e crearono le basi per la nascita di un serio movimento revivalistico che di fatto non si fece attendere.

Sulla strada tracciata da queste due opere pionieristiche si sono avventurati nel corso degli ultimi anni non pochi musicisti con approcci differenziati: alcuni, animati da intenzioni puramente didattiche, hanno offerto delle pittoresche antologie di stili e tecniche rivisitando (anche in senso letterale) banjoisti più o meno tradizionali; altri si sono lanciati, con alterna fortuna, alla disperata conquista di un proprio spazio nella storia dell’evoluzione artistica dello strumento.
Nella seconda categoria si possono far rientrare i titolari dell’album in questione, tutti appartenenti all’ultima leva di specialisti del clawhammer-style: Ron Mullennex, Bob Flesher, Paul Brown, Bob Fulcher ed Andy Cahan.

Grazie ad un programma solidamente impostato su brani tradizionali dei quali vengono citati, con una precisione che sfiora spesso la pedanteria, fonti geografiche ed anagrafiche, i nostri cinque banjoisti mostrano a turno un saggio delle proprie capacità con o senza un discreto accompagnamento di chitarra (fornito in un paio d’occasioni da Mike Seeger e Fields Ward).
Poiché tutti i musicisti hanno raggiunto un livello tecnico d’eccellenza ed una profonda conoscenza del materiale proposto, ciò che distingue un’interpretazione dall’altra va ricercato nel grado di sensibilità profusa da ognuno o nel tentativo di acquisire una qualità sonora (c/o gli effetti di un fretless-banjo, il tono conferito da un tipo particolare di pelle, la timbrica di una speciale muta di corde ecc.) che non sia fine a sé stessa ma giovi all’atmosfera del brano arricchendolo ulteriormente. Secondo questo metro, certamente non standardizzato, l’ascoltatore potrà apprezzare meglio l’opera e, se sarà il caso, potrà poi dare libero sfogo agli istinti di simpatia ed antipatia verso l’uno o l’altro degli artisti o dei brani.
Per finire, una doverosa avvertenza. Parecchio tempo fa un nostro comune amico, Roldà, mi confidò di essersi innamorato dell’old time music complice la mediazione galeotta dei due dischi di Bob Carlin; se, dal canto vostro, non volete rischiare una vera e propria seduzione o peggio, tenetevi alla larga da Old Five String.

Heritage XXXIX (Old Time Music, 1984)

Pierangelo Valenti, fonte Hi, Folks! n. 10, 1985

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