Bob Dylan

C’è una scena significativa nel bellissimo film Festival (uscito nel 1966 e purtroppo non più in circolazione da decenni), dedicato al Festival di Newport e considerato il progenitore di tutti i film rock. Una signora settantenne viene interrogata su cosa sia oggi (cioè allora) la folk music. Serenamente risponde: “Tutto cambia, anche la folk music. Si chiama pop, adesso, no? Noi tutti cambiamo”. E immediatamente l’immagine si stacca su Bob Dylan, intento nella devastante esecuzione punk di Maggie’s Farm che scatenò la contestazione dei puristi folk e cambiò per sempre il corso della musica moderna. Si sarebbe chiamato folk-rock, dopo quella serata, ben presto anche la parolina folk sarebbe scomparsa, affondata dalle cannonate sparate da quel palco, la sera del 25 luglio 1965.

Lo scorso agosto, dopo ben 37 anni, Dylan è tornato sul luogo del delitto. Nonostante si sia sempre tenuto regolarmente, il Festival di Newport non è più il bastione della tradizione, così come la folk music negli ultimi 37 anni si è contaminata in ogni modo possibile.
Paradossalmente, Bob Dylan è invece diventato paradossalmente l’ultimo difensore della tradizione, la stessa tradizione che lui ha ucciso allora, nel ’65. Si è presentato sul palco con una parrucca e una barba finta, l’ennesima maschera delle centinaia che ha indossato nella sua carriera, quasi a dire: “Ehi, Bob Dylan a Newport non ci viene…”.
“Sono tutti morti”, ha scritto Sean Wilentz a proposito di questa esibizione. “Tutta quella gente cui guardavano i giovani folksinger nel ’65, gente come Mississippi John Hurt e Son House, sono morti. Quella sera a Newport, quando ha suonato Dylan, era pieno di fantasmi. Allo stesso tempo era come assistere al passaggio di quella tradizione verso qualcosa di nuovo. Dylan lo ha fatto in modo del tutto consapevole, cantando quello che cantava nel ’65, e canzoni che ricordavano la tradizione”.
A Newport Dylan ha aperto la serata con l’antichissimo traditional Roving Gambler. Sempre nel corso della scorsa estate, ha eseguito lo standard A Voice From High del re del bluegrass Bill Monroe. Non c’è stata sera che non abbia fatto capolino uno di questi brani, che potrebbero uscire da l’Anthology Of Folk Music di Harry Smith, quasi sempre all’inizio della serata, come a stabilire bene le coordinate del mondo in cui Dylan oggi si trova. Quello della tradizione, perché lui è ‘la’ tradizione dai tempi dei Basement Tapes, quando nel bel mezzo della rivoluzione lisergica dei figli dei fiori incideva le canzoni degli Appalachi, sino agli anni Novanta, quando in due dischi come Good As I Been To You e World Gone Wrong si è eretto come ‘l’uomo della montagna’, il bardo che preserva la tradizione in faccia al popolo rincoglionito di Mtv.

Ma la tradizione di Bob Dylan è cosa viva, ricca di mistero e soprattutto in difesa di una comunità: a differenza dei nuovi tradizionalisti, Dylan ha reso anche il proprio repertorio ‘tradizione di una comunità’, cantando storie di una repubblica invisibile, di una realtà ormai scomparsa che una volta si chiamava America (gli altri, dice Wilentz, a Newport cantavano “delle proprie relazioni sentimentali… virtuosi con storie di angosce adolescenziali alla Shawn Colvin”).
Perché lui ne ha in mano il codice segreto, lui è il figlio di Harry Smith. Per lui tradizione è un canto degli Appalachi così come un rock’n’roll, un blues che sa di western swing come una ballata country o un gospel.
“Dylan sale sul palco con una parrucca simile a quelle degli ebrei ortodossi, una coda di cavallo e una barba finta”, continua Sean Wilentz. “Sembra un tizio che era sull’autobus e che si è perso. Da un altro punto, senza accorgersi della barba, avrebbe potuto essere uno delle Shangri-Las. Poi sembrava Gesù. Stava facendo uno spettacolo e si era messo una maschera. Perché lui è un menestrello. Un menestrello ebreo. E un menestrello americano (…) Ha finito il concerto con Not Fade Away di Buddy Holly nell’arrangiamento fatto dai Grateful Dead. Ancora una volta erano fantasmi. Questo è stato Bob Dylan. Lui era, completamente, l’intera tradizione del c… Lui è stato un ‘one man festival'”.
E come 37 anni prima, ha rubato lo show a chiunque altro.

Paolo Vites, fonte JAM n. 86, 2002

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