Red Wine USA Tour 1995

II volo British Airways ci scodella ad Atlanta, Georgia, nel primo pomeriggio del 9 settembre, ma sono le 6 passate prima che possiamo metterci in marcia su uno splendido Dodge Ram 15 posti (modificato Red Wine togliendo due file di sedili) contenente 5 persone, 5 enormi valigie, 2 chitarre, 1 banjo, 1 mandolino, 1 dobro, borse e borsine e tante, tante cassette. La nostra destinazione è un locale chiamato Everett’s Barn a Suwanee, Georgia (poco fuori Atlanta), e abbiamo fretta perchè la prima data del nostro tour è programmata per quella sera stessa…
Oddio, sera: primo set alle 21.30 ora locale, per il nostro fisico però 3.30, cioè a circa 23 ore dal risveglio, secondo set ore 23, pari alle 5 di mattina. Dalla nostra giocano alcuni fattori: il locale stesso (come dice il nome un granaio ristrutturato a locale), dove hanno suonato tutti e i loro fratelli (basta vedere le foto sulle pareli), il pubblico a dir poco calorosissimo, e un impianto semplice ma dove devi solo preoccuparti di suonare e cantare.
Va tutto bene, l’adrenalina ci evita di svenire on stage (a parte qualche mano tremante), vendiamo cassette come se piovesse, e siamo in grado di toccare il letto alle 2 di notte, cioè alle 8 di mattina per le nostre menti ottenebrate.

Ma non avremmo potuto iniziare il tour meglio: Everett’s Barn, gestita dai fratelli Randall e Roger Everett, ti colloca subito nella giusta dimensione per vivere il bluegrass nella maniera giusta, e la house band (The Everett Brothers Band) ti aggiusta anche le idee su come debba essere suonato il bluegrass… Il mandolinista e tenor del gruppo è il figlio di Ray Deaton, Jeff, che sta di casa lì, ed è ottimo già a 22 anni. Ne sentiremo parlare ancora, si sa…
Week-end ad Asheville, North Carolina, in una jam session globale col mio personale guru Tom McKinney, che contribuisce ulteriormente a farci capire come dovrebbero andare le cose. Siamo stravolti, ma non abbastanza da non riuscire ad apprezzare il set-up che mi fa al banjo, il suono dei suoi strumenti, il timing che, di riffa o di raffa, lui riesce a farci assorbire.
Nel pomeriggio di lunedì 11 ci mettiamo in moto attraverso il parco delle Great Smokey Mountains, godendoci un pò di turismo e avvicinandoci a Nashville, Tennessee, dove giungiamo nel pomeriggio del 12.
Prima tappa la casa di Butch Baldassari, che gentilissimo ci trova un motel, ci informa che quella sera alla Station Inn suonano i Sidemen, e ci intruppa per un party la sera seguente. Alla ‘world famous Station Inn’ conosciamo il nostro agente per gli USA, Mike Drudge di Class Act Entertainment, e ci godiamo i Sidemen, che sono dal vivo decisamente divertenti e grintosi.
Nell’intervallo scopriamo anche, o ci riconfermiamo, che Terry Eldredge, Mike Bub e Gene Wooten sono simpatici e cordiali, e molto casinisti per giunta. Ronnie McCoury invece un pò meno, ma in fondo chissene…. Vabbe’.

Il party della sera seguente, come avrete capito dalla data, 13 settembre, è la festa di compleanno di Bill Monroe, in un locale di Hendersonville chiamato The Bell Cove. Locale strapieno, dove devi usare i gomiti per muoverti e tanto equilibrio per restare fermo in piedi contro un muro, ma dove c’è un campionario di musicisti bluegrass e annessi da fare impallidire un’annata di Bluegrass Unlimited. Sul palco quando entriamo ci sono i Sand Mountain Boys che strapazzano timpani e palle, ma per fortuna in breve vengono sostituiti dai signori Tater Tate, Bobby Hicks, David Grier più un trio di altri tizi (a banjo, basso e mandolino) che non conosco, e dopo pochi minuti salgono Ricky Skaggs e lui, papa Bill.
E ovviamente suonano tutti pezzi suoi o legati a lui, e vanno avanti molto a lungo. Monroe non è molto in forma, reduce com’è da una bella polmonite, ma suona e canta come sempre, seppure con voce un pò incerta e mandolino non da lui. In un secondo tempo sale anche Wayne Lewis, grande signore della chitarra ritmica, mentre nel locale e fuori nel giardino festeggiano e cazzeggiano Doug Dillard, Pete ‘Oswald’ Kirby, Charlie Collins, Carl Jackson, Mike Compton, Kathy Chiavola, Randy Howard, Lance Leroy, Larry Cordle e ovviamente Butch Baldassari. Noi fotografiamo, filmiamo, e ci godiamo il calore dell’atmosfera, con un Monroe stanco ma commosso e tutti felici di potere dire “C’ero anch’io” (ma se non avete una quarantina d’anni questa non la capite…).

Il giorno dopo, giovedì 14, cominciamo male con le T-shirts che non sono arrivate come avrebbero dovuto, ma risultano consegnate, e finiamo in bellezza (si fa per dire) suonando alla Station Inn di fronte ad un pubblico non proprio abbondante, peraltro contento e contenente Kathy Chiavola, Roland White (che ci fa anche da soundman) e Chris Jones, con l’inatteso intermezzo di un gas lacrimogeno sparato da qualche teppista nell’impianto di aria condizionata, roba da restarci tutti secchi…
J.T. Gray, cioè il boss, non è felice della cosa e del generale andazzo della zona in cui si trova il locale, ma non si turba e ci copre di complimenti (che ti lasciano sempre un pò lì…) e gadgets.
Da Nashville partiamo la mattina del 15, carichi di acquisti e doni per amici e parenti, ma senza le T-shirts: confidiamo nell’aiuto generoso di Mike Bub. Ci fiondiamo sulle interstate in direzione nord-est, verso Morehead, Kentucky, dove dovremo suonare al Poppy Mountain Bluegrass Festival inseriti in un programma niente male: Lost And Found, J.D.Crowe & The New South, Lonesome River Band, Alison Krauss & Union Station, Ralph Stanley & The Clinch Mountain Boys, Rarely Herd, Highstrung, i Goins Brothers, la Larry Stephenson Band più i meno noti Hart Brothers e Unlimited Tradition.

Arriviamo nel tardo pomeriggio, mentre sta suonando Crowe, e ci dicono che il programma è in ritardo, quindi ci spostano alla mattina dopo. Bene: ci godiamo la buona musica, che è buona davvero. Se infatti i Lost & Found sono in fondo sempre buoni ma anche sempre gli stessi, solo un pò più mollini di 10 anni fa e senza quel genio del banjo che è Gene Parker (ma con Barry Berrier a chitarra e voce), e se la band di Crowe non è purtroppo quella di Flashback, salvo per Curt Chapman e Phil Ledbetter (Greg Luck a chitarra e voce e Darrell Webb al mandolino sono bravi ma non da delirio), ci troviamo comunque di fronte a gruppi della madonna, con un sound inconfondibile (dio che suono ha J.D.!) e un impatto mica da niente. Il quale impatto, però, rischia di impressionare un pò meno del giusto in confronto a quello della Lonesome River Band: i quattro sono vere belve, hanno una grinta che nessun’altra band possiede, e sono emozionanti qualsiasi cosa facciano. Con Ronnie Bowman e Sammy Shelor suonano adesso Kenny Smith alla chitarra (e ne sentirete parlare!) e Don Rigsby al mandolino (L.R.B. e J.D. si sono in pratica scambiati mandolinisti): si sente naturalmente la mancanza di Dan Tyminski, ma dopo pochi minuti non ci si bada più. Vere forze della natura, con un repertorio estremamente ben dosato e una potenza da rock band.
Si va a dormire ancora gasati per il loro set, e la pioggia che ci accoglie al risveglio non riesce a sgasarci: dobbiamo suonare alle 11, e piove che piove che piove. Nella gigantesca barn che sta alle spalle del palco (tutte strutture fisse, in cima ad una collina nei boschi dell’Eastern Kentucky tanto caro a Keith Whitley), hanno spostato lo schermo televisivo gigante che il giorno precedente stava a fianco del palco, e molti dei 7.000 presenti si godono il festival all’asciutto, mentre tanti altri (e non riusciamo a credere che siano così tanti) restano fuori davanti al palco, con le loro sedie pieghevoli e riparati da ponchos impermeabili e ombrelli.

Solito suono invidiabile da impianto niente di particolare ma molto ben manovrato, e facciamo appena in tempo ad entrare nella barn per vendere cassette che ci troviamo già a seguire con attenzione le varie band ‘minori’ tipo Hart Brothers o Unlimited Tradition (con udite udite il grande Jack Hicks al banjo!), e capire che qualsiasi band ‘minore’ loro nemmeno ci vede in quanto a timing, fraseggio, naturalezza etc etc. Facciamo anche amicizia con i nuovi astri emergenti, in particolare con gli Highstrung, che sono di una cordialità incredibile. Nel backstage si riesce anche a jammare con tutti o quasi i presenti, scambiarsi gli strumenti per provarli, bere caffè, ignorare la pioggia che scroscia sempre peggio.
Poi arriva Ralph con i Clinch Mt. Boys, e riusciamo finalmente a conoscere di persona l’amico James Alan Shelton, ed infine arriva la star del festival su un enorme bus di noleggio: Alison Krauss, l’unico ‘bluegrass act’ ad avere mai sfondato le classifiche con un milione e passa di copie vendute. E se lo show di Ralph Stanley, un pò arravanato (dicono) a causa dell’assenza per malattia del lead singer, è una lezione di bluegrass tradizionale e ti trasmette sensazioni che più high lonesome non si potrebbe, è però lo show di Alison e band a mettere tutti sull’attenti, con un suono da disco (anche grazie al talento di Frank Edmonson, da molto tempo ormai forse il migliore soundman nell’ambito blue­grass), e una compattezza di gruppo che probabilmente nessuno possiede. Se questo non basta a spiegare le ragioni del successo di Krauss, e se è vero che pezzi come Oh, Atlanta e Now That I’ve Found You (cioè quelli che vendono) stanno al bluegrass come, che so, Mustang Sally o l’ve Been Loving You Too Long stanno alla country music, è però vero che la band Union STation ha un suono che nessuno ha mai avuto, usa i soliti strumenti in maniera tradizionale ma molto innovativa (se non consideriamo i New Grass Revival, naturalmente), e soprattutto la signorina Alison è riuscita ad imporsi con un modo di cantare che è al tempo stesso bluegrass, country e pop, e con una presenza scenica all’insegna della massima semplicità, tipo ragazzina della porta accanto di cui si possa dire “L’avevo detto che quella aveva talento!”.

Ascoltando la loro versione live di When You Say Nothing At All, cosa che spero possiate tutti fare in un futuro prossimo, ci si rende conto di cosa significhino concetti tipo dinamiche, finezza, padronanza degli strumenti e delle voci per creare atmosfere che trascendano country e bluegrass e possano, finalmente, conquistare un pubblico vasto, grazie a un suono nel contempo ‘universale’ e rispettoso della tradizione. E la gente stava lì, sotto la pioggia battente, a mangiarsi con gli occhi (e le orecchie) quei cinque incredibili musicisti che con disinvoltura ed evidente divertimento spargevano magia a piene mani… Al termine della quale magia, dovendo noi partire rinunciando a diversi altri set per macinare un pò di miglia, ci troviamo col Dodge impantanato e dobbiamo farcelo tirare fuori dal fango con un trattore. Cosa che il molto efficiente staff del Poppy Mountain Bluegrass Festival esegue in pochi minuti. Quasi come da noi… Gente, in fondo è stato il nostro primo vero festival bluegrass nella sua accezione più classica, con tanto di palco di legno stile Bean Blossom e ‘bluegrass mud’!

Mentre guidiamo nel buio precoce da temporale sentiamo da una radio locale le ultime battute del secondo set di Alison, e veniamo informati che il pubblico dei tre giorni di festival è stato calcolato in circa 10.000 persone. Quasi come da noi…
Guidiamo nella notte, un tot di ore di sonno in un motel dalle parti di Columbus, Ohio, e grazie ad indicazioni stradali sbagliate o più probabilmente male interpretate (dal Vs. aff.mo…) arriviamo al Mohican Bluegrass Festival di Greer, Ohio, alle 11 quasi in punto. Dovendo iniziare a suonare alle 11 ! E poi si è isterici…
Il festival è in un posto splendido, con un enorme prato circondato da alberi altissimi e sulle rive di un fiume, ed un palco costruito con lunghissimi tronchi di più di 1/2 metro di diametro (e con ottimo backstage, con cibo e bevande in abbondanza, proprio dietro/sotto al palco), la gente non è moltissima ma pur sempre tanta per i nostri standard, e la line-up dei gruppi di quel giorno vede gli Osborne Brothers, i Traditional Grass e ancora la Lonesome River Band (più noi, ovvio). Sul Silver Eagle degli Osborne, sorpresa graditissima, sono arrivate le nostre ormai-date-per-disperse T-shirts, gentilmente portate da Terry Eldredge e subito vendute ad un pubblico molto simpatico. E simpaticissimi si dimostrano i ‘quattro della Lonesome’, con cui facciamo scambi di magliette, dischi e umanità varia.

Al capo opposto della scala di simpatia, duole dirlo, stanno i Traditional Grass, che sono lì per suonare il loro ultimo concerto prima dello scioglimento del gruppo: Joe Mullins ha acquistalo una radio, non una a transistor bensì proprio una stazione radio, e la band viene sciolta in maniera pare definitiva. Per questo può anche essere che siano tesi, ma non capiamo molto il loro atteggiamento distaccato con tutti. E va bene, concediamo che siano tesi, anzi, come direbbe il grande Alex Drastico: “Sono tesi, va’… stronzi, ma tesi!”. E saremo anche di fronte ad un avvenimento storico per il bluegrass, ma ci troviamo ad ignorare i loro set, anche perché, a ben vedere, ad un certo punto arriva la nostra cara amica pioggia, fredda e poco favorevole ad una nostra permanenza in esterno. Permanenza che si limita ai set della Lonesome River Band (sempre più grandiosa, anche grazie al fatto che Don Rigsby si è quasi ristabilito dai diversi acciacchi che lo affliggevano a Morehead), e degli Osborne Brothers, veramente divertenti, con una band unitissima, un Bobby sorprendentemente in forma, e un Sonny che si diverte a fare casino in continuazione mentre impartisce involontarie lezioni di banjo a noi tapini. Il repertorio del gruppo è stranamente rinnovato, anche se ovviamente comprende i classici eterni che i fratelli Osborne si portano dietro da 30 anni.

Ripartiamo nel tardo pomeriggio (mai stato ad un festival per sole 6 ore prima d’ora!), godendoci la bellezza (anche sotto la pioggia) della campagna dell’Ohio, tutta collinette e piccole fattorie e casette bianche e “old Mail Pouch tobacco sign fading on a barn”, come cantava Randy Travis: alla line del tour avremo fatto più di 4.000 chilometri col Dodge, ma ne sarà valsa la pena.
On the road again, sulla interstate 71 fino ad una Cincinnati splendente di luci nel crepuscolo (non avrei mai creduto di emozionarmi per una città qualsiasi!), poi il giorno seguente ancora I-71 fino a Louisville, quindi I-64 attraverso la verde Indiana fino alla nostra destinazione finale.
Owensboro, Kentucky, la città sul fiume Ohio dove da 10 anni si riunisce il mondo del bluegrass in una settimana di ‘tutto ciò che fa bluegrass’, grazie alla IBMA. Per coloro di voi che ancora non lo sapessero, essa è la International Bluegrass Music Association, l’associazione a cui tutti i bluegrassari seri dovrebbero essere iscritti e, in un modo o nell’altro, fornire aiuto. Anche perché iscriversi costa solo $ 20. Ma che parlo a fare, quando iscriversi alla BMAI (Lit. 45.000 annue) viene da molti considerato quasi un regalo fatto a Faulisi o a chissà chi?

Nella settimana di convention della IBMA si ascolta musica, si suona musica, si parla di musica, si respira musica, si vive di musica e di tutto ciò che ruota attorno alla musica. Bluegrass, naturalmente. Ne avete già letto su queste pagine, e d’altra parte c’è già stato qualcuno prima di noi, ma vale comunque la pena di insistere sul concetto che poche cose possono essere per il bluegrassaro appaganti come la settimana di settembre di ‘World of Bluegrass’, con il Trade Show nella Exhibitor Hall, i seminari, gli showcase delle band emergenti (o aspiranti tali…), il Fan Fest dove suonano tutti o quasi i gruppi di rilievo e non, e naturalmente le innumerevoli, interminabili, irripetibili jam session che si svolgono ovunque nel mastodontico hotel che ospita artisti, discografici, costruttori, soundmen etc etc etc.
Nel Ramada Hotel (ex Executive Inn) ci sono tutti: Jesse McReynolds è il dirimpettaio di Martino, Lou Reid sta vicino a me e Dino così come Richard Bennett (che in realtà, confesso, non è lo stesso Richard Bennett produttore di  Emmylou Harris: perdono…), si fa colazione con Marshall Wilborn e Lynn Morris piuttosto che con Joe Carr, si parla di bambini con Richard Bailey o Tony Trischka, e così via stile vicini di casa.

Qualcuno ha detto che in realtà I.B.M.A. significa “I’ve Been Mostly Awake”, e non ha fatto solo una battuta di spirito: la media delle ore di sonno dormite in una settimana è infatti (per quasi tutti) di 20 ore o giù di lì. In totale, naturalmente… Noi Red Winos, per esempio, raramente abbiamo toccato il letto prima delle 4 di mattina, e devo dire che non siamo stati nemmeno tra i più fortunati nel trovare jam session buone: una sera abbiamo iniziato con Mr. President Pete Wernick e signora, Sally Van Meter, Randy Howard, Kathy Chiavola, Hazel Dickens e un paio di altre persone, ma ci siamo presto un po’ rotti le palle, e un’altra notte io e Coppo abbiamo subito una band dell’Oregon (o Stati del genere…) con alcuni componenti dotati tecnicamente ma con velleità stranoprogressiveallamoda (Krauss), quindi niente di interessante.
Io volevo quattro hillbillies masticanti tabacco per cantarci Flatt & Scruggs, e mi sono beccato poca roba del genere ma molta invece da non perderci il sonno, e mi è toccato di suonare Dark Skies… D’accordo, in una stanza c’era una jam di musicisti dalle band di Jimmy Martin, James King, Wyatt Rice, e in più tanta birra gratis, e J.D. che beveva e cazzeggiava con Russell Moore, ma non ti viene di infilarti a suonare in quello che è in fondo un party mezzo privato (almeno musicalmente). Forse, mi rendo conto, chiedo troppo, e dovrei essere soddisfatto dell’avere suonato con John Pennell o Scott Walker (Borderline Band) o Tom Adler o altri ‘nomi famosi’.. Ma siamo eterni insoddisfatti… Per fortuna.

Cronaca della settimana IBMA: martedì 19 andiamo a renderci conto di cosa sia uno showcase, dato che ne dovremo fare uno… E apprendiamo che è ‘semplicemente’ un mini concerto (25 minuti) in cui devi tirare fuori il meglio: facile, no? Assistiamo agli showcase dei Gibson Brothers, dallo stato di New York (belle voci, strumentalmente mollini), Fragment dalla Slovacchia (da ottimi a impressionanti strumentalmente, decenti vocalmente anche con la cantante Jana Dolakova con vestitino della domenica rosso e voce pulita ma da liscio) poi la Dick Smith / Mike O’Reilly Band mista USA e Canada (molto professionali e grintosi, e soprattutto divertentissimi nelle presentazioni), quindi è noia o indifferenza con gli Acoustic Endeavors, i Ric-O-Chet (che diventano entusiasmanti però quando cambiano strumenti e suonano swing alla Jango Reinhard), e la Stevens Family (con la figlia April che suona tutti gli strumenti possibili, ma in un contesto molto da circo…).
Meglio i Loose Ties, che ricordavamo dal festival di Louisville del 1986 e sono sempre bravi, e divertimento schietto con l’azzardata proposta del duo Alan Munde & Joe Carr: bluegrass tinto di musica di confine, Messico e cabaret con un Joe di rara simpatia. Finale alla grande con Chris Jones & The Night Drivers, che sono poi Mike Compton, Doug Knecht e John Pennell: stile e suono raffinati e compatti, belle canzoni su cui la voce di Jones è perfettamente a proprio agio, una band da tenere d’occhio.

La sera dopo tocca a noi, preceduti dai Bullas, Buddy Merriam & Back Roads e Breakaway (ma non abbiamo il piacere di vederne nessuno), dagli impressionanti Kathy Chiavola & Randy Howard con Brent Truitt e Roy Huskey, Jody Stecher & Kate Brislin, e dalla molto meno impressionante (fortunatamente) Shady Grove Band.
Il nostro showease va bene, direi, e possiamo tornare a goderci la musica altrui: dopo Mark Johnson gli assolutamente fantastici Blue Highway e la Forbes Family (che non ricordo…).
La mattina seguente suoniamo in una scuola elementare di un quartiere povero (Owensboro non è una gran città…), nel quadro del Bluegrass Community Outreach Program, che porta la musica in scuole, ospizi e simili, e a ruota (12.30) torniamo per gli showcase dei Foxfire (divertenti), Highstrung (che si confermano buoni come il pane e cordialissimi amici), e Rarely Herd (bravi ma con alcuni limiti, anche se molto in grado di intrattenere).
Nel frattempo abbiamo anche vissuto l’esperienza dello stand (che qui si chiama booth) nel salone dell’esposizione, con ospiti di tutti i tipi, dal DJ al grosso musicista allo spaccapalle al liutaio. A fianco a noi Mike Auldridge prova un dobro (anzi, una ‘chitarra resofonica’’) di Michael Terris, alla nostra sinistra si parla di bluegrass su Internet, mentre alle nostre spalle (separati da noi solo da una tenda) stanno chiacchierando Jim Mills e Doc Watson nel booth della Sugar Hill. E’ un pò come aggirarsi nella propria collezione di dischi o fra le pagine di Bluegrass Unlimited, e sulle prime ci resti secco, ma purtroppo dopo un po’ non ci fai quasi più caso…

Quando allo stand della Gibson arrivano Bill Monroe, Josh Graves e addirittura Earl Scruggs si forma una coda interminabile per gli autografi, ma a noi stanchi provinciali l’avvenimento ispira solo un paio di foto col tele… E non è snobismo: è che sul momento si fa l’abitudine a tutto, anche se ora darei chissà cosa per esserci di nuovo! Arrivato la sera prima dell’inaugurazione, c’è anche il Gambetta, che ad un certo punto mette in atto il suo piano diabolico e fa annunciare che al booth Red Wine verrà servita una vera pastasciutta stile italiano (preparata da lui con la grande Grazia ‘Grace on the bass’ Branca), e in un paio di minuti capisco come deve essersi sentito il Gen. George Armstrong Custer a little Big Horn… Penso che 40 Kg di pasta non sarebbero bastati per la gente che ci circondava, e alcuni di noi (ehm…) si erano dimenticati di portare la propria razione…
Ma comunque funziona, e conosciamo così Barry Poss della Sugar Hill, che ci propina la solita storia di quanto gli piace l’Italia, che ci viene o verrebbe tutti gli anni etc. E le giornate (3, in fondo) passano senza che tu te ne accorga, fai un sacco di cose e naturalmente non riesci a farne altre: ad esempio, da veri zampognari, non siamo andati al Bluegrass Museum (per cui tra l’altro ho sganciato quattrini…) e non abbiamo partecipato a seminari o discussioni.

Già, ma quando avremmo avuto il tempo di fare tutto ciò? Anche con giornate di 20 ore di veglia e 4 di sonno non puoi veramente seguire tutto quello che accade alla IBMA!
La ‘Notte degli Oscar’ del bluegrass inizia verso le 7, e ci vede vestiti bene (signori, agli americani almeno sull’eleganza a volte riusciamo ad insegnare qualcosa!) a godere di un’atmosfera che non è proprio usuale per noi proletari della musica. Fra una premiazione e l’altra (vedere altrove per i nomi dei premiati ) si subiscono orgasmi multipli ascoltando i soliti gruppi grandiosi che qui beneficiano di un suono quasi meglio che su disco. Vediamo Jimmy Martin assurgere alla Hall of Honor, e pronunciare un discorso di ringraziamento in cui, in realtà, non risparmia nessuno e per giunta ruba tempo a piene mani. Assistiamo ad una incredibile ammucchiata on stage di molti dei musicisti che hanno suonato con Martin, così come ad una altrettanto incredibile ammucchiala di dobroisti per festeggiare il CD Great Dobro Session e fare un po’ di blanda polemica sulla inspiegabile assenza dalle pagine di International Bluegrass delle nomination per il dobro. C’ero pure io, lo confesso (ma non me ne vergogno), reclutato da Sally, a fare il pinguino in un angolino col mio ‘Sack-bro’ e il mio vestito buono…

Alla fine c’è l’ovvio rinfresco, con le solite scene turpi per l’accaparramento di cibo e bevande, ancorché con tutti in coda, e molta birra (e bourbon) a muovere le ugole. Piacevolissima la conversazione con i due Bob di Front Range, cioè Amos e Dick, e quasi mi pento di avere parlato male del gruppo, perché sono proprio ragazzi simpatici e decisamente ‘normali’, nonostante la piramide di cristallo che tengono orgogliosamente fra le mani. Bob Dick, il contrabbassista, mi spiega che per lui l’unico relativo fastidio è quello di farsi il viaggetto dal Massachusetts (dove vive) al Colorado (dove vive il resto della band) per prove e concerti: cari bambini, sarebbe come se un nostro gruppo diciamo di Torino avesse il contrabbassista che vive a Mosca! E poi noi ci lamentiamo della distanza Genova-Milano! Meglio non pensarci: si torna in hotel, ci si cambia, e ci si fionda come sempre a cercare jam sessions fino a notte fonda (o forse mattina). I.B.M.A….
E’ venerdì, e mentre chiude i battenti la Exhibition Hall si apre il Fan Fest, on the banks of the Ohio, con tanta gente ma proprio tanta e tanto freddo ma proprio tanto.

La mattina è limpida, ma c’è un vento teso da Nord che ti gela le ossa, e i vestiti pesanti cominciano a fare capolino. Lasciamo Martino al workshop di mandolino (con Sam Bush, Adam Steffey, l’incredibile Chris Thile e Ron Block alla chitarra), e scendiamo all’area del palco per lo show della Cox Family. E mamma che show deludente! Si sente che le ragazze cantano bene, che Sidney sa suonare bene banjo e dobro, che evidentemente i dischi che amiamo non sono stati sintetizzati in studio, ma le compattissime armonie che hanno reso famosa questa band non so dove siano finite, c’è una tensione (da freddo?) che mi sembra poco professionale, e papà Willard rompe molto di più che su disco. Forse se a suonare ci fossero gli Union Station tutto sarebbe meglio, ma francamente non so…
Scappiamo in albergo a coprirci come lapponi, e torniamo in tempo per Alison Krauss & Union Station, che ci regalano (imbacuccati quasi come noi) il ‘solito’ grande show, con un paio di pezzi nuovi di rara intensità.

Minore interesse per Wernick, Stecher, Brislin & Thile, e ci vuole la Nashville Bluegrass Band per farci ancora sedere a patire il freddo, anche se mi rendo conto che l’eccitazione che questa band mi procurava ai suoi inizi è adesso molto sfumata… Sarà che la spiccata caratterizzazione di stile e repertorio che ha contribuito alla fortuna della NBB ha anche allontanato molto il suono del gruppo dal solido, grintoso, ‘kick-butt’ bluegrass che nel frattempo è stato ripreso da altre band, o sarà che siamo sempre più menosi, ma a stento riusciamo a restare a farci mordere le ossa dal freddo (che immagino sia intorno a zero gradi: giuro, non ho mai avuto tanto freddo in vita mia!).
Ci riscaldano i Third Tyme Out, che sono semplicemente grandiosi, freschi del nuovo award come Vocal Group of the Year, rilassati e sicuri e apparentemente atermici. Mentre atermici non sono Laurie Lewis, Tom Rozum & friends, sui cui scappo a farmi di burritos e caffè, tornando in tempo per la Lonesome River Band (ancora?!? Si’, ancora!), seguita dalla mega-jam on stage di Sam Bush, Bela Fleck, Tony Rice, Mark Schatz, Tim O’Brien e Jerry Douglas.

Posso dire una cosa che richiede coraggio? Okay: pezzi strumentali o break interminabili, anche se suonati da gente del genere, mi hanno un po’ rotto. E io mi ascoltavo Watermellon Man con godimento solo un 10 anni fa, badate bene: ora mi sono stufato. Per giunta mi manca molto la voce di Tony, che proprio non esiste più quasi neanche per parlare, e non vedo l’ora di andare al caldo. Sabato si dorme un minimo (salvo Dino, che ha toccato il letto alle 6.45, il porco!), e si salta un bel po’ di Fan Fest in favore di prove (peraltro scarsine) e concentrazione per il nostro show del pomeriggio. Ci perdiamo perciò gli incredibili David Parmley, Scott Vestal & Continental Divide e pure Lou Reid, Terry Baucom & Carolina, ma cribbio non possiamo mica andare a fare i turisti quando ti hanno chiamato per suonare! Anche se ci mangeremmo le balle al pensiero…
Suoniamo al Fan Fest alle 18.30 circa, con le mani mezzo gelate, e tentiamo di vendere cassette e T-shirts mentre ascoltiamo (di lato) Claire Lynch. Poi (a turno) andiamo ad imparare qualcosa, più da vicino, da Doyle Lawson & Quicksilver, che da un paio di anni sono tornati a suonare attorno ad un solo microfono. La tecnologia moderna li aiuta molto nel timbro, ma all’aperto il loro volume è decisamente minore rispetto a quello delle altre band. Doyle, giustamente, se ne fotte, anche perché ha una band fantastica e uno show molto bello, più pacato del solito, ma di squisita perfezione.

Nel backstage parlo con Doyle e Scott Vestal, che commentano su quanto il banjoista dei Quicksilver, Barry Abernathy (proprio lui, il buon vecchio ‘frangetta’ che prima era coi Third Tyme Out), abbia da insegnare a tutti: “E’ di esempio e di ispirazione per tutti noi”, dice Doyle. Già, perche Barry, che è un ottimo banjoista, ha una mano destra da maestro dello Scruggs style, ma nella mano sinistra ha solo pollice e mezzo indice. Ascoltatelo su disco: nessuno potrebbe mai dirlo, senza averlo davanti agli occhi. Pensiamoci su tutti, anche… E non è facile moralismo, credo, solo una lezione (l’ennesima) di cosa si possa fare se c’è motivazione.
Poi Del McCoury: ragazzi che band! Un suono da Monroe e una grinta da Dire Straits per la sola band di oggi in grado di operare una fusione efficace tra antico e nuovo. Ci si augura che la formazione del gruppo resti inalterata a lungo, perché è qualcosa di impressionante, direi anche visualmente. Ronnie sembra la fotocopia del padre, soprattutto vocalmente, e ben merita il suo award per il mandolino (ma quando lo daranno ad Adam Steffey?), e Rob è un banjoista dotato di stile personalissimo, mentre Mike Bub e Jason Carter sembrano ormai insostituibili in quanto a classe, grinta e timbro. Speriamo bene: Ken Irwin, Mr. Rounder, mi dice che questa band è una delle poche (meno di dieci a detta sua) in grado di guadagnare bene suonando bluegrass. Auguri!
Poi ci troviamo a curarci poco degli artisti seguenti, per una di quelle combinazioni di stanchezza, amici con cui parlare, business da seguire o tentare, e chissà che altro, perciò siamo disattenti su Doc Watson (che è grande, ma purtroppo accompagnato da Jack Lawrence che non ci piace), e The Whites con Jerry Douglas (ottimi naturalmente, ma un po’ sempre uguali). Poi ancora hotel e jam sessions, dato che non si può sprecare l’ultima sera a dormire…

Domenica ci facciamo vivi al Fan Fest sul tardino, perdendo così i Bass Mountain Boys, The Isaacs, la band della U.S. Navy Country Current (che Ambasciata o Consolati USA in Italia potrebbero anche portare qui da noi!), arrivando in tempo per Jim & Jesse, di cui peraltro faremmo a meno.
Non male la nuova Lynn Morris Band, come sempre misurata e rilassata, ma la Larry Stephenson Band che segue, per quanto grintosa e con la giovanissima e ottima Kristen Scott al banjo, riesce come sempre a rompere grazie alla voce di Stephenson e ad un repertorio che più qualsiasi quasi non si potrebbe.
Per fortuna a chiudere il Fan Fest ci sono i Sidemen, scatenatissimi, simpatici e a proprio agio nonostante il sole che ora (maledetto) arrostisce. Gene ha la faccia color porpora mentre regala la solita lezione di classe, e non si capisce come possano resistere al caldo due degli ospiti del gruppo: Ed Dye (che sarà magari fulminato ma ha anche una umanità prorompente), vestito pesantissimo e con feluca, e Butch Robins, con addosso un pastrano orientaloide o forse russo bianco, sette quintali di arabeschi e velluti, lungo fino alle caviglie.
Ci sono anche le danze, on stage, con Kitsy Kuykendall, Leroy Troy e la moglie di Jimmy Campbell, e c’è pure il figlio di Campbell (3 anni) con mini chitarrina a completare questa atmosfera downhome ancorché supertecnica.

Alle 17.30 ora di Owensboro (Central Time) il Dodge si rimette in movimento verso Sud, dato che arrivare ad Atlanta potrebbe portarci via 9 o 10 ore (col cambio di fuso, che ti frega senza che tu te ne accorga). Ancora Interstate 65, 24, 75. E’ il 26 settembre quando un aereo British Airways ci riscodella in Italia, alla cruda realtà quotidiana. E porc…
Abbiamo già prenotazioni per un po’ di festival nel 1996, ma finché non ci sono non ci credo! Vi saprò dire per tempo, comunque. Until then, y’all take care!

Silvio Ferretti, fonte Country Store n. 30, 1995

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