country che ti passa

Le vie della musica sono infinite, ma quando si tratta di suoni a stelle e strisce, quando si pensa al continente americano, l’occhio e l’orecchio corrono necessariamente alle immagini e agli stilemi della country music.
Dall’Italia ne abbiamo sviluppato, lungo gli anni, una visione un po’ schematica, rigida e quasi statica, a dispetto di mutazioni, di rinnovamenti e di evoluzioni che verranno meglio fotografati nel servizio successivo, su queste stesse pagine.
Il problema, in effetti, è tutto nostro, per il tipo di trasmissione dati, di circolazione di dischi, notizie ed artisti avvenuto diciamo dall’inizio degli anni Settanta ad oggi.
In questa ventina d’anni, infatti, dopo una prima, consistente apertura delle frontiere e il progressivo incremento di vendite discografiche (prima del ’69 – ‘70, è da rammentare, non esisteva praticamente un mercato di album anglo-americani e quei pochi che filtravano erano preda di pochi cultori e collezionisti dall’appetito inesausto) si sono imposti, sia a livello di gusto, sia nelle presenze sulla stampa di settore, sia nel quadro delle tournées e delle visite promozionali, i più curiosi e improbabili artisti, testimoni di generi musicali difficili, quando non proprio anacronistici.

Mai, invece, la musica country ha saputo trovare uno spazio agibile consono al rilievo che anche in termini di fatturato, sul pianeta, detiene: e mai, qui da noi, si è avvertita la scintilla di un ipotetico interesse ‘in divenire’. Le ragioni, ancorché discutibili, sembrano numerose. Vediamo di valutarne e passarne in rassegna alcune, premettendo che nessuna di esse, e nemmeno la loro somma danno l’impressione di essere sufficienti a spiegare il fenomeno. O meglio, il non-fenomeno della country music in Italia.
-“L’America è lontana” si dice “smuovere cantanti e gruppi non è impresa da poco”.
Verissimo, però il successo e la penetrazione nelle cose musicali di tutti i giorni di stelle e stelline dell’universo U.S.A. dovrebbero segnalare una disponibilità e una circolazione più che adeguata.
Senza andare ai casi clamorosi di Madonna, Bruce Springsteen o Michael Jackson, bisogna annotare che il blues, il jazz, la stessa new age, il rock di tutte le marche e di tutti i prezzi arrivano da noi in quantità ragguardevoli. I maestri del country, invece non si sono mai affacciati. Forse per questioni di età (ma vi sono anche i giovani; e poi i vecchi del blues viaggiano come bauli, da un paese all’altro, senza posa), o per motivi di ingaggio (i dollari di casa propria sono sempre i migliori), o di diffidenza verso un mercato sconosciuto: sono obiezioni un po’ affannate, e poi la storia quotidiana insegna che agli umori del pubblico, ad un certo punto, non si comanda.

-“Dischi se ne vendono con il contagocce, non c’è un target chiaro sulla country music”.
Orbene, le multinazionali del disco hanno spesso impegnato mezzi considerevoli per spingere un prodotto piuttosto di un altro; sul country sono radi e lontani i tentativi operati per esempio della Ricordi e dalla RCA, per la verità piuttosto timidi, e che ebbero come risultati più significativi un lieve vento di notorietà con gli Alabama e con John Denver. Come dire, nemmeno i migliori a disposizione. E poi non è vero che nei negozi specializzati i dischi di country vengano ignorati: lontani da grandi (ghiotte) cifre, ci sono artisti che vendono dignitosamente, di certo più di tanti ignoti gruppetti pop. E non a caso ci sono importatori che, soprattutto negli anni scorsi, grazie a queste briciole dimenticate dai discografici, hanno determinato la loro solidità aziendale. Un’altra tesi che non tiene, non convince affatto.
-“E’ una cultura a noi estranea, troppo radicata nel tessuto della società americana”.
Vostro Onore, mi oppongo. Una dozzina d’anni fa, per esempio, vissero da noi parentesi felici tutte le musiche e i musicisti di estrazione folk anglo-celtica che riproponevano con enfasi tradizionalista un patrimonio di vita antica e irrimediabilmente sepolta, con le sole virtù della grazia e di una profonda originalità (almeno per noi). Allora non si capisce perché le vicende delle praterie, dei coloni in viaggio da una costa all’altra, le tavolette di vita quotidiana che spesso illustrano le nenie acustiche di chitarre, violini e mandolini, abbiano lasciato freddini i potenziali utenti nostrani.

Evidentemente non è neppure questo il nodo: anzi, parte del country che deriva dalle esperienze più antiche della musica celtica (la trasmigrazione dalle isole inglesi alla Nuova Terra, gli Stati Uniti, all’inizio del secolo portò evidentemente anche molti comportamenti e attributi artistici) non ha nulla da invidiare in gradevolezza, in purezza, in sollecitazioni estetiche al folk della sponda europea.
-“Semplicemente non piace: il country fuori dagli Stati Uniti non ha mai attecchito”.
Una banalità pura, anzi proprio una fesseria. Dicono le cronache che fasce consistenti di pubblico, sia in Inghilterra, in Francia, in Germania che in tutto il nord-Europa abbiano a cuore le sorti del country e che da quelle parti, pur senza tanto rumore, non manchino festival e rassegne. Anzi, c’è un ulteriore riscontro da fare: il country e le zone limitrofe del suono tradizionale USA, bluegrass, hillbilly, cajun, riscuotono un discreto credito, al punto che lungo il nostro decennio, la proliferazione di gruppi tutti ‘made in Italy’ ha assunto proporzioni ragguardevoli.

E allora? Forse neppure i posteri sapranno emettere l’ardua sentenza.
Misteri imperscrutabili presiedono alla corretta diffusione di un ambiente musicale che vive di luci e di ombre, ma che sicuramente ha prodotto cultura e aggregazione: sia attraverso i dischi, sia, soprattutto, con le esibizioni dal vivo.
Nel frattempo, dalla grande famiglia che, almeno in Italia, è stata identificata nell’area del country, emergono segnali apprezzabili di insospettabile freschezza. Perché se è vero che quella è tutta una generazione di conservatori (sia il pubblico sia gli utenti appaiono regolarmente avvitati al passato), alcuni episodi risultano adattissimi ad agganciare nuovi aficionados.
A parte le incursioni di Elvis Costello (Almost Blue), la sbornia acustica di Springsteen (Tunnel Of Love è country-rock d’autore) sono arrivati sul mercato a breve distanza tra loro, un paio di album dedicati a Johnny Cash e a Neil Young, rivisitati nelle loro composizioni classiche da gruppetti di origini punk, psichedeliche, rockettare metropolitane. Insomma, una rivoluzione.

Questa è forse la strada, contaminazione a tutto gas, incrocio tra il sacro e il profano, strisciata, magari anche subdola, a favore di un mercato che ha bisogno di invenzioni e curiosità.
Forse debitamente svecchiato, alleggerito dalle insegne di cowboy, cappelloni, stivaletti speronati, patetismo ‘old fashioned’ e dai marchi polverosi della routine a cui è affezionato il pubblico più adulto, anche il country, modello esportazione, comincerà a funzionare e a muovere fatturato.
Mica per altro, ma servirebbe a cambiare aria: musica nuova in cucina per gli anni Novanta?

Enzo Gentile, fonte Hi, Folks! n. 37, 1989

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