Bèla Fleck

Bèla Fleck non è uno normale. A quindici anni gli hanno regalato il primo banjo, a diciannove ha inciso il primo disco, e a ventisei anni era già considerato uno dei grandi del banjo, avendo vinto per cinque anni di fila il titolo di miglior banjoista per la rivista Frets.
A quaranta si è tentati di considerarlo il più grande di sempre. Non c’è banjoista di talento della generazione attuale a non considerarlo un riferimento per la propria formazione.
Ma ha ancora una faccia da ragazzino, e forse non sarebbe giusto attribuirgli il ‘best ever’ senza tenere conto degli altri grandi del passato, e senza valutare soprattutto (anche in riferimento al periodo) quanta innovazione abbia rappresentato lo stile e la musica di Earl Scruggs, l’unico che potrebbe ancora contendergli il titolo. Forse.
Certo è che Bèla Fleck ha portato il banjo in territori inaspettati, all’interno di musiche che mai avrebbero previsto il supporto del 5 string banjo, e sempre con la presenza e la dignità che ha nel bluegrass.
E qui sta la curiosità, perché per molti Bèla Fleck non è mai stato un banjoista bluegrass, troppo progressivo, già newgrass a poco più di vent’anni, musicista jazz a tempo pieno dal 1989. Cioè, è diventato grande al di fuori del country e blue­grass, con lo strumento più tipicamente legato al bluegrass.

Nel mondo dei banjoisti, ma vale per tutti i musicisti, c’è un motto che è un riferimento, un metro, un credo, e che dice: tone, timing and taste, le tre t che significano timbro, ritmo (ma non solo) e gusto. Il timbro di Bèla Fleck è splendido, rotondo, morbido, leggermente scuro ma bilanciato da quella nasalità che possono avere i banjo, profondo e sempre nitido, consistente in ogni registro.
Non nasce dal caso. Non ho l’impressione che Bèla Fleck sia una di quelle persone a cui il suono sia uscito dalle dita natural­mente bello, ci ha lavorato duro, con regolazioni dello strumento, posizio­ne ed educazione della mano, mate­riali. “Si spostò a Lexington, Kentucky, là contribuì a formare gli Spectrum, comprò due vecchi Mastertones e scambiò la sua mano destra yankee con una southern.” (Tony Trischka, Hot Licks For Bluegrass Banjo). E questo lavoro è chiaramente percepibile ascoltando e confrontando le incisioni recenti con le prime: si potrebbe datare l’incisione dal suono del banjo di Bèla.
E non sono esclusi dal processo gli splendidi strumenti che possiede, finalmente descritti in relazione ai brani nelle Bluegrass sessions. Un suono che riesce ad amalgamarsi benissimo anche nei contesti più arditi, come quelli dei Flecktones. Il timing è la precisione nella scansione delle note, ma unita alla capacità di trasmettere ritmo, energia. Si può discutere molto, e lo si fa, sul suonare esattamente sul tempo o leggermente davanti (per un banjoista è meglio non suonare leggermente indietro), o magari suonare bouncy, cioè rimbalzante come nello swing, ma l’importante è che il timing trasmetta ritmo.
Ci sono banjoisti che suonano perfettamente a tempo, con uno swing perfetto anche lui, che annoiano a morte. Bèla Fleck suona con una precisione ritmica mostruosa, e con un bounce moderato, ma non annoia e dà sempre un ritmo impeccabile al brano.
Forse oggi il suo timing è poco associabile al vero timing bluegrass, ma è una scelta stilistica, non è incapacità, basta ascoltare qualche registrazione più datata, come m’è capitato di recente con una straordinaria Cincinnati Rag su Fluxedo di Jerry Dou­glas.
Il taste di Bèla Fleck è misurabile con le decine di partecipazioni che ha accumulato in questi anni, con il credito di cui gode praticamente in ogni ambito musicale, dalla musica indiana al flamenco, dal rock al jazz, e che gli permette di avere nei suoi dischi o nei concerti dei Flecktones gente come Al Di Meola, Bruce Hornsby, Chick Corea, Branford Marsalis.

Ma è testimoniato soprattutto dai suoi dischi e dalle ormai centinaia di brani di sua immaginazione che li compongono, ispirati da innumerevoli influenze, e supportati da una tecnica esecutiva eccezionale, che ha letteralmente ridefinito i limiti dello strumento. Le discografie essenziali sono utili se sono essenziali davvero, cosicché vi propongo tre soli titoli oltre al nuovo Tales From Acoustic Planet – The Bluegrass Sessions.
E per spaziare davvero nel tempo vi propongo il CD intitolato Daybreak (Rounder CD 11518), che raccoglie buona parte dei suoi primi album più alcuni brani da Fiddle Tunes For Banjo, raccolta di strumentali a nome comune con Bill Keith e Tony Trischka.
Poi il già citato Drive (Rounder 0255), ed il CD omonimo dei Newgrass Revival (Capitol 35161). Se poi vi avessero incuriosito i riferimenti all’area progressiva o Flecktones cercate Deviation (Rounder 0196), primo disco di tipo decisamente moderno.
Per finire, e sempre in essenza, vi consiglio il primo, e anche in questo caso omonimo, CD Bèla Fleck Ad The Flecktones (WB 26124), e sempre di questi ultimi il bellissimo doppio CD Live Art (WB 46247).
The Bluegrass Sessions. Bè, non si può dire che non ci sia mancato in questi 11 anni, dall’ormai lontano 1988, anno di uscita di Drive (Rounder CD 0255), vero sunto della sua vena compositiva ed interpretativa nel campo del bluegrass. E adesso a chiederci se ne è valsa la pena di aspettare tanto.
Intanto, ne è valsa la pena per quello che ha fatto nel frattempo, e poi allentiamo subito la tensione, è un disco che merita di essere cercato, ascoltato e conservato.
Inizia con i rumori di un gruppo che si accinge a suonare, senza formalismi, ed è il primo segnale da registrare, e finisce con quelle cose che si fanno nelle sessìon, tipo finire un brano dal ritmo e melodia degenerati con il finale di Rawhide (quello di Bill Monroe) e di seguito accennare un altro standard. E’ la parentesi di chiusura, e non può non venire in mente il finale di Sanctuary, forse il brano più bello di Drive, e non è casuale la ripetizione, con l’intenzione di ricollegarsi a quello, a sottolinearne la continuità.

Come non sono casuali i frammenti di dialoghi, le battute lasciate qua e là, perché il disco è suonato da rilassati, da un gruppo di vecchi amici. Noterete anche che il suono dei diversi strumenti (registrati ottimamente fra l’altro), è sempre ben livellato, sono scarse le occasioni in cui uno sovrasta nettamente gli altri, proprio a dare sempre l’idea del gruppo.
Altri aspetti lo fanno pensare. Ascoltate il primo pezzo, che di solito si usa per presentare il lavoro, per dare una botta di interesse. Inizia cercando l’atmosfera, il ritmo sincronizzato, e poi presenta una melodia semplice semplice, da spot delle merendine, insistita, al primo ascolto anche un po’ deludente.
Poi il brano si stende, come un centometrista ai cinquanta metri, e vi sembrerà un treno in corsa, una macchina ben preparata con quel susseguirsi di interventi che non sono un vero assolo, ma qualcosa di più programmato, di più sottile, di più efficace. Al terzo ascolto vi accorgerete della trappola, ma ormai è tardi. Bèla è un maestro nel creare quella alternanza di tensione e rilassamento che è alla base dell’emozione musicale, tensione che si ottiene con la ripetizione, con la dissonanza, o con il dare l’impressione che un brano, una melodia non risolva, come capita con il secondo brano, già affascinante per la tonalità minore, la cui sonorità ricorda la Jayme Lynn del primo Tales From Acoustic Planet, (che, detto fra parentesi, è parecchio più gnucco all’ascolto). (Gnucco: pesante, di difficile digestione).

Ma proviamo a volare meno basso, a dare un’idea più globale dei brani. Primo sono tanti, ben 18 (diciotto), per 75 minuti di musica più uno di recitazione (declama John Hart­ford). Secondo, sono variati, dai traditional alla Home Sweet Home alla new acoustic music di Spanish Point, più un pizzico di blues, uno di Irlanda e uno di polka che suona come il classical banjo.
Variati anche come tempi, 3/4, 4/4, lenti, veloci. Uno poi è cantato, e devo dire che mi aspettavo di sopportare Polka On The Banjo come faccio di solito, aspettando che finisca (al terzo ascolto vinco la pigrizìa e riesco a programmare il lettore a saltare la traccia), ma questa è divertimento puro, per noi e per chi l’ha suonata, inizia bluegrass e finisce liscio, con tanto di fisarmonica. Terzo, ben 14 sono di Bèla Fleck, e per quelli che lo amano come compositore, posso garantire che non sono fondi di cassetto, hanno tutti l’invenzione melodica che li fa ricordare, dal lento che è una canzone d’amore strumentale che sembra di intendere le parole, al pezzo suonato con i Keith tuners, vero esempio di maestria.
Il gruppo è formato da Sam Bush al mandolino, Jerry Douglas al dobro, Tony Rice alla chitarra, Stuart Duncan al violino e Mark Schatz al contrabbasso, cioè dalle persone che ognuno vorrebbe che incidesse qualcosa con noi, anche solo la portiera dell’auto, e sono in forma smagliante, coinvolti, ispirati, misurati, divertiti. E sono in pochi a riuscire ad averli tutti insieme a suonare.
E’ un disco d’amore per il banjo, è un vero omaggio al bluegrass, al suo sound, alla spinta del suo ritmo, da parte di uno dei più grandi banjoisti di sempre.
E’ un omaggio a Earl Scruggs, che qui suona due suoi cavalli di battaglia in duo con Bèla, e al quale è dedicata una Ode To Earl che nella sua semplicità è una vera gemma.
Un disco felice, che ci illustra un modo più sereno, più maturo di fare blue­grass.
Per molti Bèla Fleck non è più un banjoista capace di fare bluegrass, per molti non lo è mai stato. Io non so dove andrà il bluegrass, ma se dovesse andare da qualche parte questa è una bella direzione. Un disco felice.

Nirvano Barbon, fonte Country Store n. 48, 1999

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