Li ho conosciuti su suggerimento, il primo contatto è stato visivo, una foto che li ritrae in tutto il loro splendore decisamente trash, o quantomeno redneck. Un’immagine che mi ha erroneamente portato a pensare che si trattasse dell’ennesimo small combo di estrazione rock alla ricerca di originalità, accodatosi al trend roots oriented che va tanto di moda oggi. Invece sorpresa, questi non scimmiottano, non si atteggiano, questi sono.
Sono un bel punto di incontro tra tradizione bianca e nera, sud rurale, delta blues, old time country e folk. Li distingue il fatto che sappiano suonare e abbiano dentro lo spirito giusto, quello che gli permette attraverso la loro musica di portare quasi fisicamente l’ascoltatore nelle zone in cui questi suoni si sono sviluppati.
Ben Miller ha girato per anni gli Stati Uniti e l’Europa esibendosi per strada armato di chitarra slide, banjo, armonica e percussioni varie con un repertorio fatto di classici, tradizionali e canzoni originali. Nel 2004 incontra i due elementi con i quali formerà un trio che da allora ha tenuto una media di circa 200 concerti all’anno e inciso alcuni dischi. Sono Doug Dicharry e Scott Leeper.
Doug ha fatto studi classici di trombone, ma si è sempre divertito anche con batteria e percussioni, in particolare con il washboard. A questi ha aggiunto anche mandolino e tromba.
Scott Leeper è cresciuto suonando il basso in un duo col fratello, ha poi suonato con un discreto numero di artisti blues.
Doug e Scott una sera del 2004 erano entrambi nel locale di Joplin, Missouri in cui Ben stava tenendo uno dei suoi frequenti open mike, una jam aperta ai musicisti in sala, è così che nacque l’idea di continuare insieme, da un’informale esperienza di palco. E di palchi, marciapiedi, piazze, locali notturni e auditorium vari la Ben Miller Band da quella sera del 2004 ne ha visti tanti.
Nel 2010 il trio produce un paio di dischi oggi introvabili che nemmeno il sito del gruppo menziona, nel 2011 esce un EP prodotto a scopo benefico per raccogliere denaro da devolvere agli abitanti di Joplin, la cittadina a cui sono legati, devastata da un uragano il 22 maggio di quell’anno. E ora Heavy Load, l’album attraverso il quale si presentano con una proposta matura, frutto di un’esperienza quasi decennale.
Your Dyin’ Ass si apre con una slide che ricorda la melodia di Sittin’ On Top Of The World e chissà quante altre di origine tradizionale, un bel pezzo dal ritmo cadenzato e con chitarre distorte in contrasto con una voce pulita e cori intonatissimi. Questo a sottolineare quanto la loro immagine dirty sia fuorviante rispetto alla cura nella costruzione degli arrangiamenti.
La seconda canzone, I Got Another One, coinvolge per la sua ritmica insistente e ipnotica e per l’uso dei fiati che ricordano una marching band.
La riuscita fusione di rag time, country e blues della scanzonata e divertente Strike Up The Band, ci conferma che siamo di fronte ad un gruppo che non si pone limiti stilistici, che ama reinventare la tradizione giocando con i distinti elementi che hanno caratterizzato musicalmente il Sud. Si accolgono naturalmente allora le seguenti Holly, country blues con banjo in evidenza, Love Is War, canzone dall’atmosfera old timey fino a sfuriati rock and roll dove la slide detta legge, graffiando e incitando la voce di Ben a fare lo stesso, come nella potente No One Came.
Autoprodotto (Blues, Old Time Music, 2013)
Maurizio Faulisi, fonte Il Blues n. 125, 2013
Ascolta l’album ora