Che il signor Robert Zimmerman, quarantadue anni compiuti, carismatico profeta di più generazioni e diabolico camaleonte dalle mille vite abbia preso lo pseudonimo di Dylan in onore dell’omonimo poeta gallese non ci importa molto. Anche se la stessa immediatezza nel trasmettere sensazioni e l’uso del surreale che nasce come risultante di una moltitudine di immagini create emotivamente, criticate, contraddette e filtrate dopo aver cozzato tra di loro fanno pensare che il Thomas abbia effettivamente avuto una certa influenza su di lui, non bisogna pensare che questa sia stata esclusiva. Il giovane Zimmerman, prima e durante la sua attività di folksinger, ha letto molto e ascoltato tutto l’ascoltabile della musica popolare inglese e americana: ha digerito il tutto, lo ha elaborato, lo ha riferito al suo contesto sociale e, in sintonia con il movimento folk-revival che proprio in quegli anni iniziava la sua seconda e forse più verde giovinezza, ha esplicato la lezione appresa rompendo con gli schemi musicali ufficiali del tempo. La sua musica nasce e si prefigura soprattutto in contrapposizione a quel country & western che, in seguito all’isterico e repressivo periodo maccartiano, aveva sempre più elaborato musiche melense, solo in parte sfiorate dal fenomeno rock & roll allora ancora dominante, e da testi banali e reazionari che tendevano a dipingere un’America senza problemi, ricca di benessere e di vitamine.
In un periodo in cui Kennedy fermava da una parte i missili sovietici diretti a Cuba e dall’altra già strizzava l’occhio all’escalation in Vietnam, le nuove generazioni cominciavano ad intuire la demagogia della politica interna ed estera del loro paese e a porre un limite alla retorica e al perbenismo di cui erano investiti. Quando le loro insoddisfazioni, la loro rabbia e le loro frustrazioni furono così ben rappresentate dalle canzoni di Dylan, furono in molti ad eleggerlo ‘nuovo profeta’.
Ma l’iniziazione di Dylan al mestiere di folksinger avvenne soprattutto eseguendo molto e creando poco; egli aveva allora come modello Woody Guthrie e del vecchio hobo conosceva tutto il repertorio, molte ballate in verità già abbondantemente riprese dai vari musicisti revival contemporanei. A Dylan in sostanza, in questo periodo, non importa di entrare nella problematica del suo presente, ma si accontenta di interpretare, se vogliamo abbastanza personalmente, temi anche di un certo valore socio-politico, ma completamente avulsi dalla sua realtà. A suggellare l’influenza e la profonda ammirazione per Guthrie, nasce dalla mente di Dylan Song To Woody che andrà a cantare al Greystone Hospital, al capezzale del suo grande maestro che giace colpito dal morbo di Huntington che lo porterà alla morte.
Il martellamento intellettuale al quale Dylan viene sottoposto in questo periodo lo portò, finalmente, ad un’analisi più vasta di tutto ciò che lo circondava. Dave Van Ronk, Phil Ochs e altri artisti del ‘Village’ riuscirono a fargli capire la velleità del suo discorso, a dimostrargli che l’età degli hoboes era finita e a collocarlo nella nuova dimensione.
Inizia così il periodo in cui Dylan compone le cose migliori, siamo nel 1963 e di questi tempi oltre al monumento Blowin’ In The Wind che diventerà nel corso degli anni inno ufficiale di libertà delle più diverse ideologie, escono Master Of War, Hard Rain’s A Gonna Fall, The Lonesome Death Of Hattie Carroir, Hollies Brown, With God On Our Side inserite negli album Freewheelin’ e The Times They’re A Changing.
L’impegno per la battaglia dei diritti civili e per le più elementari libertà è palese, usa sempre più spesso i ‘talkin’ blues’ e riesce ad amalgamare con una disarmante naturalezza il presente con la tradizione.
Ma Dylan nella sua vita privata non è certamente coerente con quello che scrive nelle sue canzoni: oltre all’atteggiamento mitomane che già lo aveva contraddistinto negli anni dei primi approcci al Village, che lo portava ad addebitarsi fughe avventurose ed esperienze terribili, canta contro le ipocrisie e le violenze morali e nello stesso tempo insulta e rompe l’amicizia con Phil Ochs solo perché osa dir male di una sua canzone; accusa di abuso di potere la classe dominante ed intanto ruba canzoni agli amici facendole passare per sue (l’arrangiamento della sua House Of The Risin’ Sun è in realtà di Dave Van Ronk); condanna i ‘padroni della guerra’ e poi finanzia contemporaneamente con ingenti somme di danaro Israele.
Questo incoerente dualismo non sembra, però, essere molto compreso da coloro che lo seguono e che ormai lo hanno idolatrato e che continuano a comprare ogni suo disco: lo capisce invece molto bene il sistema, valuta che questo ‘mostro sacro’ non è poi così pericoloso e lo lascia fare. Intanto la Columbia guadagna alle sue spalle milioni di dollari.
Ma il periodo di ‘protesta’ dura poco, già con Another Side diventa più introspettivo e tende ad analizzare maggiormente la dimensione sentimentale ricercando un compromesso tra l’esistenziale e il materiale, e proprio da qui nascerà quella affascinante, geniale follia che sarà il filo conduttore dei tre bellissimi albums successivi: Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde.
Il vecchio stile musicale con chitarra acustica e armonica è abbandonato e nelle nuove forme musicali trovano spazio chitarre elettriche, tastiere e batterie. Scompare sempre più la matrice folk e si fa luce l’espressione del pop. Chi lo circonda rimane sbalordito da questo cambiamento radicale. Dylan viene accusato di involuzione e di tradimento e a Newport nel ’65 viene fischiato dagli stessi che lo avevano acclamato fin dai suoi primi albori. Ma anche questa volta riuscirà ad avere ragione delle ostilità e a riconquistare tutti i suoi vecchi proseliti e molti altri ancora, affascinati da questa nuova espressione. I testi raggiungono livelli molto alti e la lirica è intensissima, nascono Mr. Tambourine Man, It’s All Right Ma, Like A Rolling Stone, Desolation Row, Just Like A Woman, Sad-Eyed Lady Of The Lowlands e molti altri pezzi.
L’espressione è arricchita da immagini surreali che si muovono in ambienti reali, che si scontrano in una lotta ironica e grottesca contro i muri dell’ottusità mentale. La vena creativa Dylaniana è in questo periodo fortemente influenzata dalle esperienze allucinogene sempre più marcate e dal fascino esercitato dai poeti e santoni della ‘beat generation’. I vari Ginsberg, Ferlinghetti, Corso e Orlowski con i loro liguaggi ellittici e gli intrecci intellettuali sempre più tangenziali imprimono in Dylan nuova linfa vitale ricca di esuberanza e di genio.
Ancora una volta Dylan sa cogliere il punto esatto dove colpire, più si addentra nei meandri della confusione mentale e più vacilla sul labile confine della pazzia tanto più affascinante appare la sua poetica. Ma questo modo di procedere è stressante e angoscioso. A peggiorare questa situazione mentale già precaria, e quasi a suggellare la nevrosi e la frenesia a cui è sottoposto per mantenere fede agli impegni di lavoro stabiliti, arriva un incidente motociclistico che lo porta vicinissimo alla morte.
Il mito di James Dean sembra traslarsi su Dylan: nei due anni successivi che lo vedranno lontano dalle scene, pur non producendo niente, riesce a vendere cifre incredibili di dischi: la Columbia naturalmente ci specula e approfittando della situazione emotivamente favorevole fa uscire un Greatest Hits che va a ruba.
Il periodo di silenzio serve a Dylan per riordinare le idee. Ritirato nella sua fattoria, lontano da qualsiasi cosa o persona che potesse ricordargli il suo vecchio ambiente, comincia a scoprire e a gustare la vita semplice e le gioie della famiglia. Ma prima di entrare definitivamente in questa dimensione che caratterizzerà anche la sua nuova musica, elabora quella che sarà l’ultima opera di un lungo ciclo: John Wesley Harding. Con il nome di questo leggendario fuorilegge del Texas esce un album molto strano; la sua elaborazione si avvale di simbolismi e di sottintesi certamente non facili da comprendere. Per interpretare correttamente questi testi, bisogna tener conto che Dylan, per esprimere i concetti che si potessero adattare alla ricerca della sua redenzione e della sua salvezza, si avvalse addirittura della Bibbia.
Ormai non ha più niente da spartire con gli altri, imbocca un binario che solo lui, con le sue genialità e le sue paranoie, riesce a intravedere e a percorrere fino in fondo. Il dopo John Wesley Hardin rappresenta il secondo ciclo Dylaniano, quello in parte legato alla dimensione ‘country’, termine molto ambiguo che certamente non gli rende giustizia, ma che proprio per quell’eterogeneità con cui viene generalmente inteso si presta a raccogliere le mille sfumature di certa sua successiva produzione.
Il 1969 è all’insegna di Nashville Skyline un disco che lascia di sasso tutti gli adepti: dopo l’espressione più genuina del folk, Dylan ha abbandonato anche il rock e si è messo a duettare con Johnny Cash. Il luogo di registrazione del nuovo album, del resto, la dice lunga: Nashville-Tennessee, la patria del country, quello peggiore del Sud conservatore e reazionario, legato ai valori sicuri della patria e della bandiera, il Sud di William Zantzinger e di Hattie Carroll di cui aveva così ben colto, solo pochi anni prima, l’aspetto razzista. Le reazioni sono violentissime anche perché la copertina che lo ritrae con i capelli corti e l’espressione giuliva non lascia dubbi sulla nuova identità.
In realtà Dylan non fa niente di scandaloso: visto con il senno di poi Nashville Skyline è addirittura un bel disco, ben curato negli arrangiamenti e piacevole per la sua delicatezza. Certo Dylan chiude definitivamente alcune porte e ne spalanca altre: il lavoro seguente Self-Portrait, album doppio dal titolo emblematico, visto che i pezzi sono tutti tradizionali, continua sulla strada del country, ma presenta anche delle ballate ed ogni tanto strizza l’occhio al blues dilatando la dimensione tradizionale nei suoi molteplici aspetti.
Anche Pat Garrett & Billy The Kid, scritto nel 1973 come colonna sonora dell’omonimo film di Peckinpah si attesta su una musicalità dai richiami western, ma questa volta si tratta di un contesto particolare, vista l’ambientazione della pellicola. Il disco è in buona parte solo suonato e riesce a cogliere delle atmosfere e delle sensazioni decisamente belle. Ma per Dylan in questo film, più che l’esperienza musicale, conta quella della lavorazione e della regia; già da tempo ha in mente un lavoro da costruire cinematograficamente, ma gli mancano le capacità immediate e professionali del regista, per cui assorbe a piene mani l’esperienza di Peckinpah che cercherà di sfruttare quando tre anni più tardi celebrerà, immortalandolo in Renaldo & Clara, un film di oltre quattro ore, il tour della Rolling Thunder Revue effettuato per tutta l’America al fianco di musicisti come Jack Elliott, Joan Baez, Joni Mitchell e Roger McGuinn.
Ma nel 1973, oltre ad essere caratterizzato da Pat Garrett e dalla sua lavorazione a Durango nel Messico, è anche un anno piuttosto burrascoso dal punto di vista dei rapporti con la sua casa discografica; infatti, in seguito a screzi di vario genere, Dylan lascia la Columbia e passa alla Elektra-Asylum, per la quale incide subito Planet Waves, un album che recupera una lirica ed una melodia che aveva ormai abbandonato da anni. Dylan ritorna ai temi privati e personali trovando un equilibrio molto diverso da quello degli anni sessanta: nessuna dinamica paranoica o surreale, bensì un ripensamento pacato sullo spaccato della vita quotidiana che percorre senza grossi sbalzi di umore o di inquietitudine.
Ma la CBS nel frattempo non sta a guardare: Dylan è un affare che vale miliardi e lo rivuole alla sua corte. Per intralciarlo nel suo nuovo cammino fa uscire contemporaneamente a Planet Waves un disco concorrenziale che non fa certo onore al codice di professionalità, nel quale vengono raccolti alcuni brani che erano stati scartati nelle produzioni precedenti. Fa così la sua apparizione sul mercato Dylan, un album bruttino in cui è ancora marcatamente presente la dimensione countryeggiante del nostro, che si esibisce in gorgheggi e toni melensi non più consoni al suo presente; uniche note positive del disco sono forse Lily Of The West e la versione molto personale di Mr. Bojangles.
La CBS finalmente la spunta e Dylan torna all’ovile. Bisognerà aspettare però due anni (cioè il 1975) per risentire accenti tradizionali nei suoi dischi. Infatti solo con Desire, uno splendido album che ha come costante colonna sonora il suono del violino, riecheggia l’anima pionieristica e addirittura, in una certa misura, impegnata di Dylan. In una cornice idilliaca dal punto di vista musicale egli ritorna più che mai istrione e paladino della protesta contro l’ingiustizia. Hurrycane, ovvero la vera vita di Rubin Carter, pugile di colore imprigionato per un delitto non commesso, apre l’album e accusa esplicitamente le istituzioni e le persone coinvolte in quello scandalo. Di notevole valore anche One More Cup Of Coffee, che si avvale della splendida voce di Emmylou Harris (presente anche in altri brani), e Romance In Durango, una storia di amore e coltello ambientata in Messico. Anche Sarah assume un carattere particolare: Dylan dedica alla moglie una nostalgica ballata ricca di ricordi e di pathos, forse l’ultimo tentativo per trattenerla dal divorzio ormai imminente. Alcune indiscrezioni trapelate poco tempo dopo affermano che tra i vari motivi per i quali fu richiesto il divorzio, la moglie addusse anche quello di essere più volte stata picchiata dal romantico Bob.
Ma in questo ciclo dal filo conduttore country-rock, se lo vogliamo a tutti i costi etichettare, non mancano anche le eccezioni talvolta decisamente positive, che tutto sommato mettono in risalto la continua necessità di sperimentare e di spaziare in nuove atmosfere sempre diverse. Dylan ha la necessità di stupire il suo pubblico, vuole assolutamente l’originalità, e fino a che punto tutto ciò sia sintomo di una sua reale capacità di ricerca mentale e artistica o sia invece una prestabilita volontà di darsi una patente di originalità è difficile da capire; rimane comunque il fatto che la sua produzione è sicuramente una delle più creative ed interessanti di tutta la storia del pop.
Nel 1970, per esempio, subito dopo Self-Portrait, Dylan compose New Morning, un disco al quale la critica, a parte forse quella underground, non ha mai dato molto risalto, ma che in realtà già conteneva alcuni germi di originalità e di sperimentazione di cui si sarebbe avvalso più tardi.
Se sorvoliamo su alcuni album dal vivo in cui Dylan ripropose in modo stravolto qualche suo vecchio pezzo, e sul doppio The Basement Tapes che cercò di arginare i bootlegs sempre più numerosi in seguito alle sue tournée, il lavoro forse più interessante di questo secondo ciclo è probabilmente Blood On The Tracks. Questo continua in una certa misura il discorso di Planet Waves, ma senz’altro in modo più contradditorio, con una nuova inquietitudine esistenziale emergente che mette in risalto una maturità non più caratterizzata da sentimenti estremizzanti, ma da un giusto equilibrio alimentato da un costante ripensamento.
Blood On The Tracks rappresenta l’inizio di una certa stabilità mentale che sarà destinata a vacillare solo quattro anni dopo, quando con Street Legal si comincerà a delineare una nuova matrice musicale concepita in seguito ad un travaglio interiore, preludio della sua terza fase caratterizzata dalla conversione religiosa.
Street Legal è in realtà il classico album di transizione, in cui per quel che riguarda i testi si nota una leggera esasperazione dei temi trattati in Blood On The Tracks con i primi accenni ad una nuova visione della vita. Brani come Changing Of The Guards e True Love Tends To Forget sono per l’osservatore attento segnali significativi di una prossima mutazione di valori.
Musicalmente l’album comincia in maniera informale ad ammiccare al gospel, e la presenza di tre vocalist femminili che fanno insistentemente da coro a parecchi pezzi è senz’altro significativa. Ma l’esplicito momento della conversione alla fede cristiana arriva con Slow Train Coming in cui la poesia Dylaniana sempre un po’ cerebrale lascia il posto a una prosa lineare, marcatamente chiara nelle sue intenzioni di creare proseliti per il nuovo culto. Con Save si raggiunge l’apice; i testi sfiorano la preghiera, l’intensità lirica scompare totalmente per lasciare il posto alla glorificazione e l’accompagnamento musicale è un passo indietro di oltre dieci anni, una sorta di gospel mischiato al rock che per rendere bene necessiterebbe di ben altra grinta. La copertina del disco poi raggiunge un cattivo gusto davvero difficile da comparare e riflette un po’ la tristezza dell’intero lavoro.
Nel 1981 lo stesso discorso lo si può ripetere per Shot Of Love che esce nell’indifferenza pressoché generale. Anche se le cose migliorano un pochino non si può certo parlare di rinnovamento; e proprio quando è dato irrimediabilmente per finito, quando la sua creatività e il suo rinnovamento ormai più che ventennale sembrano segnare il passo, ecco uscire Infidels, il suo ultimo lavoro di pochi mesi fa che gli fa riguadagnare il credito perduto.
Gli inni di redenzione sono superati, il disco è nuovamente pervaso da una verve incalzante che ricorda i tempi migliori, qua e là rispuntano l’armonica, che riporta agli antichi fasti, e la voce pungente e rauca che completa l’opera. Sono stati sufficienti pochi solchi di vinile e dalle profondità più oscure in cui era stato relegato Dylan rispunta più luminoso che mai a ricevere nuove lodi e ulteriori sudditanze che consolidano la sua fama e il suo conto in banca del resto mai vacillante.
Certo viene da pensare: i colpi di coda al momento giusto non convincono un granché. Tre album andati male hanno esaurito una fede a favore di un nuovo fervore sociale che sicuramente paga di più; un pizzico di furbizia non guasta, e per di più fa felici migliaia di persone che ritrovano il loro profeta, il loro vecchio mito, un po’ invecchiato ma pur sempre in grado di farsi valere.
In realtà gli pseudopodi dell’Establishment lo hanno fagocitato da tempo; di lui rimane una sterile sensazione emotiva legata agli alti e bassi della sua produzione, barometro un po’ malandato degli umori sociali. Nella ambiguità questa volta non surreale di una qualsiasi ‘Desolation Row’ ha finito col caderci anche lui.
Discografia italiana:
-CBS 32001, Bob Dylan (1962)
-CBS 62193, The Freewheelin’ B. Dylan (1963)
-CBS 32021, Times They Are A-Changin’ (1964)
-CBS 32034, Another Side Of Bob Dylan (1964)
-CBS 62515, Bringing It All Back Home (1965)
-CBS 62572, Highway 61 Revisited (1965)
-CBS 66012, Blonde On Blonde (2LPs) (1966)
-CBS 63252, John Wesley Harding (1968)
-CBS 63601, Nashville Skyline (1969)
-CBS 66250, Self-Portrait (2LPs) (1970)
-CBS 32267, New Morning (1970)
-CBS 67239, Un Poeta, un Artista (2LPs) (1971 )
-CBS 32098, Pat Garrett & Billy The Kid (1973)
-CBS 32286, Dylan (1973)
-CBS 32154, Planet Waves (1974)
-CBS 22137, Before The Flood (2LPs) (1974)
-CBS 69097, Blood On The Tracks (1974)
-CBS 88147, The Basement Tapes (2LPs) (1975)
-CBS 86003, Desire (1975)
-CBS 86016, Hard Rain (1976)
-CBS 86067, Street Legal (1978)
-CBS 96004, At Budokan (2LPs) (1978)
-CBS 86095, Slow Train Coming (1979)
-CBS 86113, Saved (1980)
-CBS 85178, Shot Of Love (1981)
-CBS 25539, Infidels (1983)
Roberto Caselli, fonte Hi, Folks! n. 6, 1984