Bob Koester picture

La costruzione contraddistinta dal civico 4121 di North Rockwell a Chicago, può benissimo passare inosservata. Infatti priva com’è di ogni riferimento squisitamente accattivante a livello commerciale, può essere scambiata tranquillamente per la sede di una qualsiasi ditta di import-export. Invece dietro a quel numero si cela la sede attuale della Delmark Records, ovvero il regno della più leggendaria casa discografica indipendente nella storia del Blues, non volendo con ciò sottacere della sua importanza anche nel mondo del Jazz.
E’ ovvio a questo punto che, dopo aver coltivato per anni (quaranta?) il sogno di intervistare Bob Koester, creatore e proprietario dell’etichetta, adesso stavamo per realizzarlo. Che poi la sua disponibilità a livello umano fosse tale, alla faccia degli 83 anni, da annullare o quasi il nostro timore reverenziale non ci sorprese in fondo più di tanto (o meglio l’avevamo sperato). Fu proprio a causa di ciò che smarrimmo, senza alcun rimpianto, le ulteriori domande affacciatesi durante il corso dell’intervista, quasi per ricambiare inconsciamente la stima dovutagli. Quindi, nonostante quanto troverete nel seguito possa apparire scarno, speriamo lo possiate accettare per quello che è. Chiacchiere poche. Vicinanza rispettosa molta.

Come è nata la Delmark?
Sono andato al college alla Saint Louis University dove studiavo cinema, volevo stare dietro una telecamera, come hanno poi fatto due dei miei fratelli. Una sera c’era una band che suonava jazz tradizionale, i Windy City Six, in un club ad un isolato di distanza dal dormitorio del campus. Non ricordo il nome del locale, comunque decisi di andarci, non avevo mai visto una band di jazz tradizionale dal vivo, solo Tommy Douglas e qualche gruppo locale a Wichita, Kansas, dove sono nato e cresciuto. Pensavo che la band fosse buona e meritasse di registrare un disco, cosa che feci e poi al secondo anno di college, ho avuto finalmente i soldi per pubblicare un dieci pollici, sotto il nome Delmar. Inoltre tenevo un programma alla radio del college, anche se non sempre andavo in onda, mi intimidiva, col tempo sono cambiato, ma c’era un altro ragazzo che voleva fare l’annunciatore alla radio e aveva accesso ad apparecchiatura per registrare, credo fosse un Ampex e un buon microfono. Con quell’attrezzatura in prestito volevamo registrare la band del trombonista Sid Dawson, che poi si è trasferito a Chicago. Suonavano in un club di Delmar Boulevard chiamato The Barrel. C’erano molti locali in quella zona, mi ricordo una volta ci vidi Miles Davis, non si pagava l’ingresso e le birre costavano 50 centesimi! Il leader di quella formazione era una leggenda locale, uno che suonava lì regolarmente, ispiratore di Miles e di Clark Terry, il trombettista Dewey Jackson. Potrei dire che era l’equivalente di Louis Armostrong per Saint Louis. Abbiamo registrato un suo concerto con una band formata da Booker T. Washington alla batteria, forse Sid Dawson al trombone e Frank Chace un clarinettista molto bravo che ho sempre ritenuto sottovalutato. Ah, e al piano c’era Don Ewell. Abbiamo avuto qualche problema con la registrazione risolvibile solo con il digitale, tanto che lo abbiamo pubblicato completo solo pochi anni fa su CD e devo dire che non ha venduto molto purtroppo. Non c’è molto materiale di Dewey Jackson in giro, qualcosa su Vocalion. Di fatto quella fu la prima registrazione su Delmar, la chiamammo così perché su Delmar Boulevard c’erano diversi locali jazz. Molti di jazz tradizionale a parte The Barrel, dove suonava Miles, credo che qualcuno lo abbia anche registrato in quel club, devo dire che all’epoca il jazz moderno non mi piaceva molto, però ogni tanto andavo al Barrel perché appunto le birre costavano cinquanta centesimi e siccome la birra non mi piace nemmeno più di tanto mi durava tutta la sera.

Per quanto riguarda il commercio di dischi, invece, al primo anno di college misi in piedi una vendita per corrispondenza di 78 giri dal dormitorio del college, con un socio di nome Ron Fister e il secondo anno aprimmo un negozio, The Blue Note Record Shop, usammo persino il logo della Blue Note! A Ron non interessava molto il jazz, gli piaceva lo swing degli anni Trenta anche se entrambi eravamo grandi ammiratori di Billie Holiday. La nostra società non durò molto e alla fine ci dividemmo. Quindi le cose non sono andate come pensavo e invece di diventare un film maker che colleziona dischi sono diventato uno che registra dischi e i film li colleziona; ho più di ottocento film solo su pellicola a 16mm. Ho rilevato anche alcune collezioni, alcune però a prezzi stracciati, un dollaro per film, documentari per lo più, ma ci sono anche film di ottant’anni fa. Sono andato ad una convention a Columbus, dove proiettano vecchi film e ho scoperto che alcuni film sono piuttosto rari. Gli unici film che ho in parte realizzato sono quelli musicali che abbiamo prodotto negli ultimi anni come Delmark, saranno circa una decina ormai; anche ho coinvolto mio fratello dalla California per fare il regista/direttore della fotografia, però mi sono messo dietro la macchina da presa qualche volta. Diciamo che è il massimo che sono riuscito a fare come film maker.

Il primo numero della nostra rivista aveva in copertina Sleepy John Estes, il suo fu anche il primo LP Delmark che comprai. Cosa ci puoi dire di lui?
Dunque, arrivai a Chicago nel 1958 e rilevai il Seymour’s Record Shop nel 1959, anche grazie all’aiuto di John Steiner, discografico per la Paramount. John mi aveva incoraggiato a venire a Chicago, voleva vendermi la Paramount, cosa che non è mai avvenuta, però mi prestò i soldi per comprare il Seymour’s, millecinquecento dollari. Di fianco al negozio lavorava un tizio che si chiamava Estes e una volta quasi lo chiamai Sleepy John. Beh, venne fuori che era suo fratello e che si era trasferito a Chicago da tempo. Io pensavo che Sleepy John fosse morto, a giudicare dalla sua voce doveva essere molto vecchio. Invece conobbi un tale che stava realizzando un film, Citizen South-Citizen North, non credo lo abbia completato, David Blumenthal, che era venuto a Chicago per girare una parte del film. Disse che aveva conosciuto Estes e che ora abitava a Brownsville, nel Tennessee. In quel periodo Joe Segal, fondatore del Jazz Showcase, che lavorava già al Seymour e tornò a lavorare con me al Jazz Record Mart (1). Beh, comunque lo facemmo venire a Chicago, in treno per registrare e per un paio di concerti e gli chiedemmo dove voleva andare, dato ci aveva detto che dei parenti lo avrebbero ospitato. Lui ci disse «Devo andare al 437 South Wabash», «Ah, vuoi dire al mio negozio?», «No» disse lui, «E’ dove lavora mio fratello». Avrei potuto trovarlo prima se solo lo avessi menzionato al fratello!

Andai con John Estes in Europa per l’American Folk Blues Festival, non ci ero mai stato, girammo sei paesi diversi. Credo fosse il 1964 e c’erano Howlin’ Wolf, Lightnin’ Hopkins, Sunnyland Slim e Sonny Boy Williamson II°, di ritorno perché aveva avuto molto successo l’anno prima e Willie Dixon, e ci sono anche dei filmati di quegli anni. Prima di Estes avevo registrato il pianista Speckled Red e Big Joe Williams. Ricordo che del disco di Williams vendemmo circa settecento copie, fu una bella sorpresa, di quello di Red ne vendemmo molte meno, trecento più o meno. Ogni tanto quando saluto qualcuno penso a Speckled Red, che diceva sempre «Be good and I’ll be good as I can», al momento di salutarci. Big Joe lo avevamo fatto incidere anche a Saint Louis, dicevo sempre che lui era in grado di registrare un LP di quaranta minuti in mezzora! Piney Woods lo intitolammo. Quando Joe era a Chicago stava a casa nostra o nel seminterrato del negozio e aveva sempre gente intorno, suonava per Mike Bloomfield o Paul Butterfield.

E Hoodoo Man Blues di Junior Wells, come venne fuori?
Quando vivevo a Saint Louis non mi piaceva molto il blues moderno, c’era qualche band ma non di grande livello. Andai a vedere Muddy a Chicago, aveva una grande gruppo ed era un leader autorevole, mi piaceva il suo repertorio. Né lui né Wolf erano grandi chitarristi, ma ne avevano di ottimi nei loro gruppi. Andavo anche a sentire i pianisti, sebbene ad un certo punto sembrava che tutti i pianisti si trasferissero a Parigi, Memphis Slim ad esempio e Curtis Jones, che registrammo poco prima che partisse, Jack Dupree…Forse perché non c’era più lavoro per loro, molti club non avevano nemmeno un piano. Dopo aver sentito Muddy cominciai interessarmi al blues di Chicago, ma certo non potevo registrare lui o Wolf. Mi accorsi che c’erano altri musicisti di talento che erano senza contratto, J.B. Hutto e Jimmy Dawkins per esempio. E più avanti Otis Rush che per qualche motivo non stava registrando in quel periodo, e poi Jimmy Johnson. Su Hoodoo Man, Junior aveva il gruppo e le canzoni, ed è stato semplice. Pensavo che Buddy fosse sotto contratto con Leonard Chess e non potessimo usare il suo nome, e che quindi bisognasse trovare uno pseudonimo. Parlai con Leonard che disse «Ok you can record that motherfucker, but he doesn’t sing and you can’t use his name». In realtà ha persino cantato in un pezzo in duetto con Junior e uno da solo, che abbiamo usato nella riedizione, recuperate da un nastro di quindici minuti. Alla fine le prime settecento copie di Hoodoo Man Blues col nome Friendly Chap, giocando sul fatto che era quasi un sinonimo di Buddy Guy, a buddy is a friend and a guy is a chap. Poi venne fuori che non in realtà non era sotto contratto e quindi abbiamo stampato il suo vero nome.

Cosa puoi dire della vendita del Jazz Record Mart?
Ho venduto l’inventario ad una società che vende su internet (Wolfgang’s Vault -n.d.r.-), opera da Reno, nel Nevada. Poi ho deciso di riaprire qui, perché molti mi hanno offerto di comprare collezioni intere di dischi. Ne vedi una qui dietro, una grossa collezione di jazz moderno e sono quasi tutti in ottime condizioni. Perciò ora abbiamo un negozio qui alla Delmark, d’altra parte cosa farei se mi ritirassi del tutto?

Hai ispirato alcuni tuoi dipendenti, come Bruce Iglauer e Michael Frank a fondare un’etichetta.
Credo che Bruce abbia cominciato la sua etichetta perché io non volevo incidere Hound Dog Taylor. A dire la verità non lo avevo visto col suo gruppo ma solo una volta, quando suonava con Hutto ed era ubriaco, intrattabile, perciò non mi aveva fatto una buona impressione e non volevo lavorare con lui. Anche con Michael siamo amici, ha lavorato con me per un po’ e poi ha fondato la Earwig. C’è stato poi un inglese che lavorava per me, di cui ora mi sfugge il nome, che ha creato una sua etichetta una volta tornato in Inghilterra.

Hai a volte acquistato e ristampato il catalogo di etichette come Regal, Apollo, United…
Beh, semplicemente è più economico acquistare i master! Quando ho preso la United però pensavo di avere anche incisioni di Gene Ammons, ma non sapevo che erano stati già vendute alla Savoy, ma non so se la cosa fosse legittima, per quanto mi hanno raccontato, pensavano che questo tizio, il manager di Ammons, fosse andato in New Jersey dalla Savoy per trattare la vendita di master gospel, ma evidentemente aveva anche i master di Gene Ammons.

Alla Delmark avete sempre guardato con attenzione ai musicisti più giovani, producendo i loro dischi e aiutandoli ad affermarsi. E ancora, quale futuro vedi per il blues?
C’è molto talento in giro, musicisti che meritano di essere conosciuti. Io non mi sento un produttore nel senso tradizionale, sono più un documentarista, non credo di aver mai detto a un musicista come suonare o non suonare un brano…se un musicista non è un buon leader per la band, non spetta a me sistemare le cose, non ne avrei nemmeno il talento. Solo una volta è capitato, ma eravamo agli inizi, che un gruppo jazz volesse registrare When The Saints Go Marching In. Ho solo detto loro che non mi sembrava il caso, ce ne sono già talmente tante versioni. Quanto al futuro del blues a Chicago, non credo sia a rischio, di blues se ne suona ancora parecchio. Il cambiamento più grande si è avuto nel pubblico, quando ho cominciato a registrare blues, pochissimi bianchi erano interessati ad ascoltarlo, al massimo ascoltavano Bessie Smith o Ma Rainey. Ma il country blues non interessava, per carità il blues moderno non interessava nemmeno a me all’epoca. Forse se Big Joe Williams avesse avuto una band non lo avrei registrato! Ora invece c’è un vasto pubblico di bianchi, di europei, Muddy e Wolf non ci sono più ma il blues è sopravvissuto, di certo c’è qualcosa che si è perso per quanto riguarda il pubblico di neri. Chicago è una grande città con una grossa comunità di neri venuti dal Sud, che hanno formato band qui e di bianchi che cercavano di imitarli, non avendo lo stesso vissuto e simulando un accento meridionale. Ci sono eccezioni, Charlie Musselwhite è cresciuto a Memphis e non ha bisogno di fingere nulla, è parte della sua storia.

Studebaker John? I suoi dischi ci sono piaciuti.
Sì anche lui è un buon esempio, non cerca di forzare un accento fasullo. Devo dire che la prima cosa che cerco in un artista blues è la voce, non mi interessa un chitarrista o un armonicista in sé, ma prima di tutto la voce. Ancora meglio se scrive canzoni sue.
(Intervista realizzata a Chicago, il 9 giugno 2016)

Note
(1) Jazz Record Mart, ovvero il negozio di dischi più famoso di Chicago, fu una creatura di Bob Koester. Con grande attenzione, Bob lo ubicò nello stesso stabile in cui aveva sede la Delmark Records al 7 di West Grand Avenue. Ben presto Jazz Record Mart divenne acronimo di negozio poliedrico in quanto, oltre che punto sicuro per l’acquisto di materiale discografico a prezzi accessibili ed in grado di soddisfare neofiti e collezionisti, fu anche luogo in cui era possibile assistere ad esibizioni di gruppi blues e jazz. Nel 2006 venne trasferito al 27 di East Illinois Street, ovvero appena un isolato più a nord, in uno spazio molto ampio e quindi in grado di ospitare sia maggior materiale discografico che i possibili acquirenti. La cosa continuò positivamente sino agli inizi di quest’anno, quando il raddoppio della rata di affitto mensile, che Bob non era più in grado di pagare, lo indusse il 15 febbraio alla sua chiusura. Tutto il materiale inventariato venne venduto alla Wolfgang’s Vault di Reno, Nevada, gruppo che opera nelle vendite on line di materiale musicale, film, etc. La piccola parte del materiale rimasto, unito a quello che Koester acquistò da alcuni collezionisti, è stato ospitato nella sede della Delmark al 4121 di North Rockwell. Ma come Bob stesso ci ha detto nell’intervista «d’altra parte cosa farei se mi ritirassi del tutto?», Koester ha aperto lo scorso 15 ottobre il Bob’s Blues & Jazz Mart al 3419 di West Irving Park Road… L’inaugurazione era stata affidata al concerto jazz del Dan Meinhardt’s Outset, a cui hanno fatto seguito quelli di Studebaker John il 29 e di Lurrie Bell/Johnny B. Moore il 30 (quest’ultima data coincide con il suo 84esimo compleanno). Auguri Bob, in tutti sensi.

Marino Grandi, fonte Il Blues n. 137, 2016

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