La conversazione con Bobby Rush è quasi l’appendice dei suoi concerti. L’uomo sa stregare l’ascoltatore e raccontare storie con gusto e abilità tutte sue, e poco importa che storia e leggenda a volte si confondano l’una nell’altra. Da consumato affabulatore e uomo di spettacolo, ha tempismo e precisione nell’aneddotica, tanto è vero che a fine intervista ha confermato di essere al lavoro su una sua biografia. Traspare sovente l’orgoglio per il proprio percorso artistico ed i riconoscimenti, nel 2013 lo Stato del Mississippi lo ha insignito del Lifetime Achievement Award («un grande onore» ci ha detto lui), ma anche il carattere è diretto e generoso. Non tutti sanno, ad esempio, che ha suonato per le truppe statunitensi di stanza in Irak «è stato speciale anche se ci ho messo un po’ a convincere la band».
Sei nato in Louisiana.
Vicino a Homer, nella parte nord dello Stato e sono vissuto lì fino al 1947, quando con la mia famiglia ci siamo trasferiti a Pine Bluff, Arkansas. Lì sono rimasto fino al 1951 o ’52, poi mi sono trasferito a Chicago, dove ho vissuto per quarantasette anni. Infine sono tornato a vivere a Sud, a Jackson, Mississippi. Mio padre, Emmitt Ellis Senior era un predicatore e pastore di una chiesa, per questo ho un nome d’arte. Infatti il mio vero nome è Emmitt Ellis Junior, ma proprio per una forma di rispetto verso di lui e quello che rappresentava decisi di trovarmi un altro nome. Ho cercato per diverso tempo dei nomi adatti, volevo grandi nomi, altisonanti, per un po’ ho anche utilizzato President Roosevelt, cose così…, oppure nomi di una sola sillaba perciò Bobby Rush è perfetto. Nessuno mi chiama Bobby, nessuno mi chiama Rush, per tutti sono Bobby Rush, come fosse una sola parola. Come dico sempre, ci sono molti Bobby, molti Rush, ma un solo Bobby Rush! Se qualcuno mi dice «Hey Bobby» di solito non rispondo. Per anni avevo un cappellino con scritto ‘The One And Only Bobby Rush’, ma ora che sono più vecchio non ne ho più bisogno. Proprio lo scorso weekend mi hanno organizzato una festa di compleanno, c’erano tremila persone, e la festa si è tenuta in un casino di Tunica, peccato ci fossero solo duemilacinquecento posti a sedere e un altro migliaio di persone che voleva entrare sia rimasto fuori. Non sapevo di essere così amato. E’ stata davvero una bella festa, per cui sono molto grato al promoter che la ha organizzata e che si chiama Julius Lewis, anche perché in tutti questi anni nessuno mi aveva mai organizzato una festa di compleanno.
Quale è stato il tuo primo approccio con la musica? Ascoltavate la radio?
Ascoltavamo la radio e mio padre suonava la chitarra, anche se non lo ho scoperto fino all’età di sette o otto anni. Più o meno a quell’età mio cugino mi diede una chitarra che nascosi nel granaio, ma a causa del caldo il manico della chitarra si era piegato e così per farla tornare a posto al pomeriggio la immergevo nell’acqua dell’abbeveratoio dei cavalli. Pensavo che mio padre non lo avesse scoperto, ma si sa, i padri sanno sempre tutto e un giorno mi disse, «Figliolo portami la chitarra» e così gliela portai. Temevo che si sarebbe arrabbiato e che me l’avrebbe portata via. A dire il vero mio padre, essendo predicatore, non mi aveva detto di cantare il blues, ma nemmeno di non farlo. Per molti il blues allora era la musica del diavolo, ma non per mio padre. Infatti lui quel pomeriggio imbracciò la chitarra, cominciò a suonarla e mi disse: «Ora ti canto una canzone che suonavo ad una ragazza quando avevo qualche anno più di te»; io pensavo che avrebbe suonato qualcosa di gospel, con Amen e Thank You God Almighty, invece attaccò: «Me and my girl went chinkapin hunting she fell down and I saw something». «Papà» esclamai subito, sorpreso di sentire quelle cose da un predicatore, «cantala di nuovo» gli chiesi, siccome ero curioso di sapere come continuava, cosa aveva visto quando era caduta, che tipo era e che cosa indossava. Mio padre rispose che era grossa e indossava solo un vestito…in quel momento apparve mia madre, che era in cucina e stava preparando il pranzo, tossicchiando come per dire «Non cantare quella roba al bambino» e mio padre che nel frattempo aveva ripreso a cantare «Me and my girl went chinkapin hunting, she fell down» e sentendo mia madre finì «…and I kept running!». Non ho mai saputo come continuasse, anche se poi una idea me la sono fatta! Ascoltavamo la radio, soprattutto WLAC da Nashville, avevamo una radio che andava con una batteria per auto, ascoltavamo country and western, qualcosa di blues nel weekend e musica gospel. Amo tuttora il country, tanto è vero che giovedì scorso è stato introdotto nella Memphis Hall of Fame Johnny Cash e qualcuno, sapendo che sono un suo ammiratore, mi ha chiesto di partecipare alla serata, ho anche cantato Walk The Line. Sapevo che era di Memphis, ma non ho incontrato Cash di persona fino al 1968 o ’69, quando finalmente ho avuto modo di dirgli che lo ammiravo e conoscevo tutte le sue canzoni. Avevamo qualcosa in comune, sia in termine di età che di carattere, a lui piaceva il whisky e a me le donne! Ho cominciato presto a incidere e registrare, delle 259 canzoni che ho inciso ne ho scritte, arrangiate e prodotte quasi tutte, tranne forse una decina.
Quale è stato il tuo primo strumento?
Nei primi dischi suonavo la batteria, poi il basso che ho suonato anche sul palco per alcuni anni. Suonavo già anche l’armonica e la chitarra. I miei primi ingaggi li ho avuti quando vivevo in Arkansas, in un posto chiamato Jack Rabbit. Elmore James all’epoca viveva a Canton, Mississippi, io conoscevo Boyd Gilmore il suo chitarrista, suo cugino, e gli dissi che volevo che Elmore suonasse con me, lui però disse che Elmore voleva cinquanta dollari a sera e per me era troppo. Alla fine riuscii ad averlo lo stesso, ma ci volle uno strattagemma. C’era un mio amico, Lee Rabizeen che aveva un club a Chicago, il Lee’s Lounge, che veniva spesso nel Sud a trovare la sua donna che aveva una impresa di pompe funebri. Ricordo che mi portava in giro per i club su una limousine che usavano per i funerali, ma io scendevo due isolati prima del club e andavo a piedi per non farmi vedere in giro come fossi un becchino! Lee e questa donna erano fidanzati e si sarebbero sposati, comunque una sera ero in un club, c’era Elmore James e stavo parlando con questa donna. Elmore mi disse «Hey Bobby Rush chi è quella bella donna con cui stavi parlando? Mi piacerebbe conoscerla, farei qualunque cosa». «Qualunque cosa, Elmore?» gli dissi io, «beh se accetti di suonare con me te la presento». Così feci, anche se la cosa non era proprio pulita e un po’ mi dispiaceva perché Elmore e Lee erano tutti e due miei amici. In ogni caso Elmore suonò con me per alcune settimane e non dovetti nemmeno pagarlo! Cosa abbiano combinato poi non lo so.
Hai conosciuto bene anche Jimmy Reed.
La Vee Jay Records fu fondata da Vivian Carter e da suo fratello Calvin che era mio amico. Si sarebbe chiamata Vee Jay quando lei si sposò con Jimmy Bracken, e allora diedero all’etichetta le loro iniziali, Vivian e Jimmy. Calvin, che come ho già detto era mio amico, mi dava qualcosa, qualche dollaro a sera, solo per andare nel locale e prendere il posto di Jimmy Reed quando aveva bevuto troppo perché ero in grado di imitare il suo stile. In più a volte Jimmy mi dava dei soldi per comprargli del whiskey, cosa che puntualmente facevo anche se, dopo un po’, mi ero fatto furbo. Infatti mi ero procurato una bottiglietta di whiskey vuota, la riempivo per metà di acqua e per il resto di whiskey, tanto lui non se ne sarebbe accorto. Così mi mettevo in tasca qualche dollaro in più, a volte facevo anche cinque dollari a sera in questo modo, e mi sembrava quasi di essere ricco. Che tipo Jimmy, mi spiace per lui, mi diceva «Bobby Rush» e io gli rispondevo «Sissignore», e lui proseguiva «compri proprio del buon whiskey, vai a comprarmene altro!»
Quando e come decidesti di trasferirti a Chicago?
Beh in un certo senso seguii il mio sogno, in quanto tutti i musicisti che conoscevo e stimavo, come Muddy Waters e Howlin’ Wolf, vivevano a Chicago. Avevo anche una sorella e un fratello che ci abitavano già. Ad esempio a Los Angeles non conoscevo nessun musicista, tranne forse Big Joe Turner, anche se poi uno dei miei fratelli ci si è trasferito. Chicago era la casa del blues, all’epoca c’erano Jimmy Reed, Smokey Hogg, e ci venivano regolarmente John Lee Hooker e T-Bone Walker. Nel 1953 arrivò Chuck Berry e ritornò sempre per incidere dischi. Nel 1957 andai a prendere alla stazione degli autobus Etta James, e nello stesso anno arrivò anche Buddy Guy. Insieme a Chuck Berry io sono il solo superstite di quella stagione, gli altri sono arrivati tutti dopo di me a Chicago, oppure sono già morti. Credo di essere l’unico musicista che ha inciso per la Chess e si è portato via i master delle incisioni.
Però non è stato pubblicato quasi nulla.
Solo un 45 giri. Vi dirò come è andata. All’epoca suonavo in un club nella zona di Rush Street, nel North Side, non ci suonavano band di musicisti neri, e anzi c’era addirittura una scritta ‘no colored allowed’. Ottenni una audizione per un club chiamato Bourbon Street, e quindi mi ero portato quattro bianchi con me, e il gestore del locale, un tizio di nome Cunch e dall’aspetto cinese, mi ingaggiò pensando di ‘integrare’ il locale. Dovevamo suonare per due set e a metà c’era uno spettacolo di go-go girls che ballavano sul palco. Però alla sera, forse ingenuamente mi portai la mia band abituale di neri e l’atmosfera era molto più tesa. Ormai era troppo tardi per mandarci via, mancavano solo dieci minuti alle nove e dovevamo suonare. Cunch ci disse di lasciare il palco appena finito di suonare. Tra i due set della band era previsto lo spettacolo di ballerine, ed io mi ero assicurato di riuscire a vedere dal retro! Ci fecero entrare in un camerino e chiusero la porta con una catena, e ci dissero di restare lì finchè non ci avrebbero chiamato. C’era una specie di codice se volevamo usare il bagno dovevamo bussare tre volte, due volte per mangiare o per una birra e così via. Una ballerina, che aveva visto come ci avevano trattato, mi avvicinò e mi disse quel che aveva in mente: avrebbe finto di cadere e a quel punto avrei dovuto saltare sul palco con la chitarra. Il pubblico andò in visibilio, c’era un tizio grosso a lato del palco che scoppiò a ridere. Verso le due mi chiamarono nell’ufficio del capo. Fuori c’era un uomo armato, una guardia del corpo. Mi fecero entrare. Il capo stava fumando un sigaro seduto dietro una poltrona, mi chiamò e mi disse «Hey ragazzo, hai paura di me?». «No» dissi io. Lui a quel punto mandò via le guardie del corpo, premette un pulsante e la parete si aprì. Si vedeva tutto il palco. Evidentemente aveva visto lo spettacolo, gli era piaciuto e mi aveva preso in simpatia. Mi fece sedere e mi pagò «Scommetto che Cunch non ti paga abbastanza» disse. Mi diede un suo biglietto da visita, che misi in tasca e mi disse di contattarlo se avessi avuto bisogno di qualcosa. Qualche giorno dopo cercai di recuperare il biglietto, ma mia moglie aveva lavato quella giacca. Lo recuperai e venne fuori che quel tale era uno dei Capone. Chiesi in giro, anche ad un avvocato mio amico, ma nessuno voleva averci a che fare. Conoscevo i fratelli Chess, perché suonavo regolarmente nei club di Chicago, avevo detto loro che avevo un contratto con Emmitt Ellis, ma non sapevano che Ellis ero io, pensavano che Ellis avesse contatti con la malavita e per questo io potessi lavorare nei club per bianchi del North Side. Per questo mi lasciarono tenere i master delle incisioni. A quei tempi nei club per bianchi volevano la musica, ma la band doveva suonare dietro una tenda, in quanto non volevano vedere le nostre facce. Al massimo il cantante usciva alla fine del set per salutare il pubblico, e anche se molti oggi non ne parlano la situazione nei club non era facile. In un club ero talmente popolare che la scritta diceva “Entertainment by Bobby Rush & the band”, ma non volevano vedere la band, che suonava in pratica dietro il tendone. Ma c’è anche un’altra ragione per cui non feci altro con la Chess. Una volta passai nei loro uffici, c’erano Leonard, Phil e qualcun altro, e su di una scrivania c’era un foglio, con scritto che due sindacati di musicisti si stavano per fondere. «Ottima notizia» dissi. Loro mi fecero ripetere quel che avevo capito e poi uno disse all’altro «Il negro sa leggere, non possiamo utlizzarlo».
Hai avuto nelle tue band musicisti come Freddie King e Luther Allison…
Sì, e anche Willie James Lyons, Fred Below alla batteria, Pinetop Perkins al piano, Luther Tucker che suonava con Little Walter alla chitarra…bei tempi anche se non facevamo molti soldi. Ricordo che con Tucker suonavamo già nel chitlin’ circuit, sapete da dove deriva il termine? Dal chitlins, le frattaglie di maiale che non costavano davvero nulla, perciò nei club li cucinavano tutta la sera e li davano come paga ai musicisti, che spesso non prendevamo altro che cibo, chitlins o hamburger. Gli hamburger a volte li riuscivo a rivendere per venti centesimi l’uno, così avevo qualche dollaro extra in tasca.
In quel periodo cominciasti a incidere per piccole etichette, come Jerry-O, Palos.
In alcuni casi i pezzi li avevo incisi, ma sono usciti in un secondo momento, ad esempio Chicken Heads che è stato pubblicato nel 1970, ma in realtà lo avevo inciso nel 1967. E’ stato il mio primo grande successo, ha venduto qualcosa come novecentomila copie solo nelle prime settimane. L’ho realizzato in parte grazie a Calvin Carter. Per Sue è stato lo stesso, è uscito nel 1983 ma è una canzone che avevo pronta almeno quindici anni prima.
Conoscevi Sonny Thompson ma non hai mai inciso per la King.
Questa è un’altra storia, conoscevo bene Thompson e Lula Reed. Fui io a portare Freddie King alla sua etichetta, ma Hideaway era una cosa di Magic Sam, era lui che suonava in un posto che si chiamava appunto Hide Away Lounge. Dovevo portare Sam da Thompson, ma per qualche ragione Sam non si presentò. Così ci portai Freddie che due settimane dopo registrò, a mia insaputa, Hideaway che fu un grande successo, ma ripeto non era di Freddie ma era di Sam che era altrettanto bravo, se non di più. Erano gli anni in cui la King Records aveva James Brown, con successi come Please, Please, Please e per me non c’era spazio, anche se avevo registrato The Things That I Used To Do. Devo dire che in quegli anni non mi davo nemmeno troppo da fare per trovare contratti discografici, me la cavavo bene con gli ingaggi nei club ed ero uno dei musicisti popolari in città, lavoravo sei sere a settimana e guadagnavo più di Muddy Waters e Howlin’ Wolf!
Però avevi registrato dei 45 giri come Gotta Be Funky, Gotta Have Money.
Erano dischi essenzialmente per il mercato dei juke box, che a quell’epoca era importante. Poi sono arrivati gli album con otto o dieci canzoni, le cassette e poi i CD…ed è cambiato tutto. Io però sono rimasto me stesso come artista nero prima di tutto; sono uno dei pochi che ha avuto successo crossover, voglio dire tra il pubblico dei bianchi, senza perdere per strada nel contempo il contatto col pubblico afroamericano d’origine. Non si può dire lo stesso di molti altri. Nella mia categoria vedo solo B.B.King, Chuck Berry, Little Richard e Buddy Guy. Ho registrato più dischi di Buddy ad esempio anche se non ho avuto la sua esposizione mediatica, ma quello dipende anche dai manager. Per me parlano i numeri, ho venduto molti più dischi. Ma non fraintendetemi, ammiro Buddy che è un riferimento come artista e businesseman, per quanto ha fatto con il suo club, così come ammiro B.B. come performer e entertainer. Io però preferisco essere indipendente, ho la mia etichetta e sono il manager di me stesso.
Come hai cominciato ad avere danzatrici sul palco ai tuoi spettacoli?
L’idea mi era venuta giù negli anni Sessanta, guardando gli spettacoli di Broadway…però diciamo che per ragioni economiche non sempre era possibile averle. Solo dopo il successo di Chicken Heads, quindi più o meno dagli anni Settanta in avanti, sono tornate regolarmente a far parte dei miei show.
Potresti parlarci del disco che hai realizzato per la Philadelphia International di Gamble & Huff, Rush Hour?
Kenny Gamble e Leon Huff sono stati i primi nel music business a lasciarmi fare le cose a modo mio, forse perché c’era molto rispetto reciproco tra noi. Era stato un mio amico, Granville White, dirigente per la CBS a mettermi in contatto con loro, ed in più conoscevo già alcuni dei musicisti che incidevano per loro, come Teddy Pendergrass, gli O’Jays o le Pointer Sisters. Gamble e Huff mi hanno detto di fare quel che volevo e la cosa mi stava bene, ma allo stesso tempo volevo vedere come procedevano loro e imparare il loro metodo. Allo stesso modo loro volevano capire il mio approccio, all’inizio non lo avevo capito, pensavo volessero tenermi a distanza. Mi ricordo che la prima volta che ci siamo incontrati Huff voleva che incidessi una canzone che si chiamava T & A… Comunque gli sono debitore, specialmente con Huff stavo spesso a casa sua e siamo ancora amici; proprio da questa esperienza ho capito come potevo creare e gestire una mia etichetta ed avere il pieno controllo della mia carriera. Di conseguenza ho deciso di trasferirmi nel Mississippi, a Jackson, allora abitavo a Chicago ma l’ottanta per cento dei miei ingaggi era negli Stati del sud e perciò non riuscivo mai ad essere a casa, in quanto quando tornavo il giorno dopo era già tempo di ripartire. Scelsi Jackson perché, perché se guardate la cartina, è quasi al centro della zona meridionale, perciò sarebbe stato molto più pratico. E’ stata una cosa piuttosto inusuale, ma una buona decisione dal punto di vista del business e in più posso passare più tempo a casa con la famiglia e portare ogni tanto i nipoti a pescare. Non ero sicuro che mia moglie e i figli, sempre vissuti a Chicago, avrebbero apprezzato il Sud, ma devo dire che si sono ambientati subito e sono stati tutti contenti nella nuova casa. Anzi mi sono detto che avrei dovuto trasferirmi dieci anni prima!
Come mai hai scelto di incidere un gran disco acustico come Raw?
Ah, ma sono le mie radici! E’molto facile per me suonare cose del genere e nel concerto di domenica farò qualcosa da solo, lo faccio anche in America, specialmente in posti più piccoli. E’ anche il mio modo di comporre, con la chitarra, solo in un secondo momento coinvolgo la band. In febbraio del prossimo anno registrerò qualcosa di simile, dieci canzoni solo voce, armonica, il battito dei piedi e ovviamente le mie storie. Ho già pronto il titolo e un paio di canzoni, il disco si chiamerà: Me, Myself & I. Devo solo andare in studio, accendere i microfoni e suonare. Forse faremo anche un CD io e Dr John, dovrebbe chiamarsi Making a Decision, incentrato sulla Louisiana.
Qualche anno fa hai anche preso parte ad un disco dello storico gruppo gospel Bells of Joy su etichetta Dialtone.
E’ stato divertente farlo, venni contattato da uno dei membri e dal produttore, mi chiesero di partecipare al disco. Accettai subito perché amo il gospel e sono un loro fan.
Anche Folk Funk era davvero un bel disco, come ti è venuto in mente quella definizione per la tua musica?
Amo quel disco. Circa venticinque anni fa nel corso di una intervista qualcuno mi chiese «Bobby Rush la tua musica è funky, bluesy e racconti storie, come definiresti la tua musica?». «Non lo so», risposi io. Però mi venne in mente un episodio di quando ero un ragazzino e a scuola c’era un mio amico che si chiamava M.B. Hicks. La maestra una volta gli chiese per cosa stavano le iniziali M.B., beh lui non lo sapeva ma siccome lei lo incalzava, gli rispose la prima cosa che gli venne in mente, Melvin Ben o qualcosa del genere. La stessa cosa mi è successa nel corso di quell’intervista, volevano per forza un nome e così all’improvviso mi è venuto in mente folk funk. E il termine è rimasto, del resto la mia musica è funky e racconto delle storie: folk funk quindi.
Sappiamo che hai suonato ovunque anche in Cina.
Oh sì. Credo di essere uno degli artisti americani più famosi in Cina, è stato qualche anno fa, con un pubblico enorme alla Grande Muraglia. Quando sono arrivato nessuno sapeva cosa aspettarsi, ma nel giro di una paio di giorni avevo già dato una ventina di interviste e mi hanno accolto davvero benissimo, mi sentivo come il Presidente! Mi avevano detto che i cinesi sono diffidenti verso gli occidentali, ma non è stato così si vede che amavano la mia conversazione, mi chiamavano ‘little brother’, ed è la prima volta che mi succede. Mi hanno anche chiesto di scrivere una lettera, un messsaggio sulla libertà, otto o nove mesi fa, ho scritto che cosa sia la libertà come diceva Martin Luther King, per me è essere in grado di parlare e fare da te stesso quello che gli altri non vogliono o possono fare per te, non è andare, comprare, fare qualcosa…per me è la possibilità di esprimere quello che sento. E’ la stessa cosa che cerco nel mio lavoro, posso non piacere, ma chiedo di essere rispettato. Spero che ad un mio concerto si dica almeno «Non mi piace Bobby Rush, ma dannazione è proprio bravo». Se la reazione è questa, allora mi sta bene. Posso dire queste cose in una intervista perché ho questa libertà, altri hanno manager o case discografiche che indirizzano la comunicazione o non vogliono che si parli di questo o di quell’altro. Io ovviamente non voglio urtare i sentimenti di nessuno, ma non ho timore di essere diretto, sono originale, non mi interessa di dire che ho suonato con Muddy Waters. So di non sapere molte cose, ma Dio mi ha dato la capacità di capirlo, molti parlano di cose che non sanno, ma io credo di non essere tra questi. Ho ancora lo stesso spirito di quando da giovane andai in questo club a Rock Island, Illinois, perché avevo un ingaggio e il gestore cercava anche uno ‘stand up comedian‘ per intrattenere il pubblico prima della musica. Mi chiese se conoscevo qualcuno e gli dissi che ne conoscevo uno bravo, un certo Pretty Bob. Al che andai da Pretty Bob e gli proposi il lavoro, la paga era di trenta dollari ed io ne prendevo di meno, come band leader, per suonare. Lui inizialmente accettò, tuttavia all’ultimo momento si tirò indietro e non potè esserci e siccome avevo promesso un comico, allora mi venne una idea: pensai di travestirmi un po’ e di andare io stesso sul palco, un vestito, cappello, dei grossi baffi finti. Dissi che il nome del sostituto era Tramp, e che sarebbe arrivato in tempo per lo spettacolo. Così andai sul palco, raccontai battute e storie, il pubblico era entusiasta, finchè verso la fine dissi «Signore e signori, ora è il momento della stella: Bobby Rush!». Corsi giù dal palco, andai nel camerino mi cambiai al volo, tolsi i baffi e tornai sul palco per suonare. Andai avanti così per qualche mese e il proprietario non si accorse di nulla, prendevo doppia paga! Quando se ne accorse me ne disse di tutti i colori, però aggiunse «Sei bravo, quindi non ti licenzio». Poi qualche ragazza che veniva spesso in quel club, mi disse che mi preferiva quando ero travestito, e solo allora seppi che lo avevano capito sin dall’inizio ma non avevano detto nulla.
Come è la situazione del blues a Jackson e nel Sud in generale?
Buona, ma la gente non ascolta blues come una volta, preferisce magari il southern soul e cose più rhyhtm and blues. Io sono della vecchia scuola, nella mia musica ci sono molti elementi diversi e ognuno ci può trovare qualcosa. I più giovani mischiano il blues all’hip-hop, campionamenti, cose così, ma alla fine è sempre blues, se pensate che in 44 Blues Howlin’ Wolf cantava di voler andare ad ammazzare uno che gli aveva rubato la donna o B.B. cantava Sweet Sixteen a quarant’anni, beh non siamo molto lontani dai rapper di oggi.
Hai partecipato al film The Road To Memphis.
All’inizio la mia partecipazione non era prevista. Credo avessero avuto qualche problema con Ike e restavano ancora circa venti minuti liberi per completare il film. A qualcuno venne in mente di contattare quel cantante dai capelli lunghi che abita nel Mississippi, Bobby Rush, così chiamarono la Malaco chiedendo di me. La Malaco disse loro di chiamare me direttamente, visto che io sono indipendente come sapete. Ci incontrammo coi produttori, non avevano molto budget ma non mi importava, gli proposi un accordo, avrei accettato di partecipare al film gratis se avessero passato la notte con me… intendo ad uno dei miei spettacoli e se fossero venuti in chiesa con me. Si sono guardati tra loro un po’ perplessi, ma hanno accettato; così abbiamo fatto: hanno incontrato la mia famiglia e sono venuti alla nostra chiesa la domenica. Io studio la Bibbia, non fumo e non bevo, anche se poi ho altri difetti, per capire chi sono e da dove vengo era indispensabile che lo vedessero. Alla fine lo hanno apprezzato molto, hanno capito che tipo di persona sono, uno vero, ecco come sono finito nel film. Io ci tenevo ad esserci per la presenza di B.B. (King), non per gli altri musicisti coinvolti. Dopotutto io sono sempre rimasto fedele a me stesso.
(Intervista realizzata a Lucerna, Svizzera, il 15 novembre 2013)
Matteo Bossi, Marino Grandi, fonte Il Blues n. 127, 2014