Butch Hancock - The Wind's Dominion cover album

Il secondo album solo del texano Hancock conferma pienamente l’eccellente esordio dello scorso anno. Il disco ci presenta un autore maturo, un vocalist più completo ed un musicista che ha il pieno controllo delle sue non comuni qualità di songwriter. Autogestito, come d’altronde il precedente album, The Wind’s Dominion ci presenta il suo autore in una veste sempre più dylaniana. Infatti Hancock ha maturato il suo stile in una direzione più urbana, ascoltando il Dylan di Blood On The Tracks e facendo sua la lezione del Zimmerman.
Rimane certamente lo stile scarno di West Texas Waltzes, ma le capacità dell’autore escono da un semplice genere rurale, per spingersi in un ambito più urbano, e quindi la musica acquista una corposità ed una sostanza che erano assenti nel primo album. Il paragone con Dylan viene naturale, sia per la voce, che per lo stile voice-guitar-harmonica che domina per buona parte dell’album; ma Hancock non copia, anzi reinventa, su uno schema più congeniale alle sue origini, una musica dalle mille sfaccettature.
Il modello, come già detto in precedenza, è il miglior Dylan degli anni ‘70: quello di Blood On The Tracks, con particolare riferimento a quella spettacolosa song che si intitola Lyly, Rosemary And The Jack Of Hearts, e che sta un poco alla base di questo nuovo lavoro di Butch. Quindi Hancock reinventa, prendendo lo spunto dall’uso di una voce roca, di un’armonica e di una chitarra, e costruisce delle ballads spettacolose, che hanno come comune denominatore la sua terra: il Texas.

Fondamentalmente i testi non si discostano molto dal primo album: si parla delle plains, degli altopiani, delle fattorie, della vita rurale nel Texas, della solitudine, delle piccole città sperdute in un territorio immenso, del dominio del vento… La differenza maggiore tra i due album sta quindi nel tessuto musicale: molto scarno quello del primo album, più completo, costruito e sentito quello di The Wind’s Dominion. Hancock infatti non è più solo, ma si è circondato di musicisti a lui congeniali: dall’amico Joe Ely, al fisarmonicista Ponty Bone, dal violinista Richard Bowden, allo steel guitarist Lloyd Maines, quindi a Jimmie Gilmore (amico dai tempi dei Flatlanders), David Halley, Tim Mc Casland ed altri.
The Wind’s Dominion è un gran bel disco, in cui si respira aria pura, scevro da qualunque compromesso commerciale; le canzoni sono più rilassate, più distese in una struttura armonico/melodica, che nel primo album era solo abbozzata. Inoltre il grosso sforzo di Hancock autore si vede anche nel fatto che il cantautore voglia proporre un doppio album: infatti Il dominio del vento comprende ben diciassette nuove canzoni, di cui alcune piuttosto lunghe. L’album ha essenzialmente due facce: quella acustica, più matura rispetto al primo album, e quella elettrica, indubbiamente la più innovatrice ed interessante.

Le canzoni, che hanno tutte un comune denominatore, sia a livello di melodia sia per quanto riguarda i testi, sono tutte piuttosto belle e dense di quelle tipiche atmosfere texane. La musica del border, l’uso prolungato della fisarmonica (Ponty Bone), il violino sferzante ed una ritmica leggera ma insistente danno un tono ed un colore particolare alle composizioni di Butch. Tra le composizioni di maggiore importanza, posso comunque citare The Eternal Triangle, una lunga ballata malinconica per voce e fisarmonica, quindi Mario Y Maria, una tipica song tutta intrisa di mexican savior; la lunghissima Only Born, una frenetica situazione sonora di circa dieci minuti dallo stampo decisamente dylaniano, indiscutibilmente un pezzo di bravura.
Mi piacciano molto le due versioni di The Wind’s Dominion: la prima acustica e riferita al passato, la seconda elettrica, con uno stupendo finale fiatistico; quindi sono degne di citazione Personal Rendition Of Blues, l’acustica Own And Own, la caustica Smokin’ In The Rain e Long Road To Asia Minor, The Gift Horse Of Mercy e la breve Dominoes. La scuola texana si conferma la migliore oggi negli States, e personaggi del calibro di Ely, Terry Allen e Butch Hancock hanno certamente un futuro sicuro.

Rainlight 1644 (Singer Songwriter, 1979)

Paolo Carù, fonte Mucchio Selvaggio n. 28, anno 1980

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