California

Grazie al suo clima temperato durante tutto l’anno e la sua filosofia positivista del prendersela comoda (Take It Easy), la California gode di estrema popolarità in quanto – a torto od a ragione – è stata per lungo tempo considerata la mitica Terra Promessa. In questo contesto andremo ora ad esaminare tre recenti prodotti discografici californiani i quali, seppur molto diversi fra loro, hanno la provenienza comune.

Severin BrowneThis Twisted Road (Subdude 49093-2)
Forse alcuni degli ultra quarantenni che ci leggono lo sanno, ma per coloro che non rientrano nella suddetta categoria anagrafica, diremo che Severin Browne altri non è che il fratello del più famoso Jackson, rientrato, dopo una lunga assenza, nel panorama discografico con The Naked Ride Home.
Severin arriva al suo quarto album nell’arco di una trentina d’anni, tanto è infatti passato da quell’omonimo LP del 1973, al quale fece seguito l’anno dopo l’altrettanto gradevole (ma niente più) New! Improved!
Il contratto con la Motown (?) era stato probabilmente agevolato soprattutto da questioni anagrafiche e dalla popolarità che il filone cosiddetto dei cantautori californiani aveva riscosso all’inizio degli anni ’70. In seguito si erano perse le tracce di Severin, fino al 1995, quando esce From The Edge Of The World per l’etichetta giapponese Moo Records. Il disco riprende il discorso laddove esso era stato abbandonato vent’anni prima: ballate elettroacustiche, atmosfere delicate ed un cognome sempre più pesante da portarsi dietro in ambito artistico, poiché il raffronto fra i due viene quasi spontaneo e Severin non ha la caratura di Jackson: su questo non si discute.

A circa sei anni di distanza da questo album (il primo in formato CD per Severin) esce il quarto episodio della sua carriera discografica ed è una piacevolissima sorpresa: si tratta infatti di un gran bel disco appartenente proprio al filone succitato e risulta senza dubbio l’opera più matura ed arriva ad essere il disco che tutti si sarebbero aspettati dal fratellino di Jackson Browne, magari trent’anni prima.
Il materiale contenuto in This Twisted Road copre un ampio arco di tempo, infatti i brani vanno dal 1995 al 2000, con l’aggiunta di Sweet, Stupid Dreams classe 1978.
L’impatto non è dei più immediati, ma la raffinatezza del melange dato dai vari strumenti cresce alla distanza e la canzone non dimostra certo la sua età. Il disco è stato registrato in California nello studio di Ed Tree, che coadiuva lo stesso Severin alla produzione.
Dei dieci brani proposti non si può dire che un gran bene e gli appassionati del cantautorato di orientamento californiano saranno felici di assaporare delle sensazioni che da tempo mancavano dallo spettro della nostra sensibilità.

Don’t Mistake The Singer For The Song sembra uscita da un vinile (bello) degli anni ’70, con Jay Dee Maness (Byrds, Patty Booker, Jann Browne, Carlene Carter, Tracy Chapman, Duke Davis, Byron Berline Band e Chris Hillman fra gli altri) alla pedal steel guitar e Skip Edwards al piano.
Il lavoro delle chitarre elettriche (Ed Tree) profuma della nostra California e le chitarre acustiche (Severin e l’amico James Coberly Smith) danno il tocco finale ad una grande song.
Do You Think I’ll Go To Heaven è un’accorata domanda che suona come un misto fra speranza e confessione, sorretta da chitarra (Severin) e basso (Ritt Henn)acustici, unitamente ai contrappunti vocali di Debbie Pearl. E due!
Lo stesso ensamble già citato dà poi vita a Water, un’altra tenue ballata dal tessuto essenzialmente acustico, mentre You Can’t Fool The Moon è più tesa e nervosa, ma sempre profondamente ancorata all’humus californiano.
Il tile-track traccia solchi di pura poesia nell’animo dell’ascoltatore, anche del meno disposto e più arido e non si può fare a meno di domandarsi come mai certi prodotti di qualità non trovino la strada giusta per il grande pubblico.
Angelyne è l’unico episodio che segna la collaborazione compositiva di David Zollo (testo) con Severin Browne (musica) e si rivela un gradevole e disimpegnato country-rock di marca inconfondibilmente californiana, tanto da ricordare le sonorità che avevano riempito gli esordi degli Eagles nel lontano 1972: perfetta da ascoltare su una macchina scoperta, in una giornata di sole, nel pieno dell’estate californiana (scusate il condensato di luoghi comuni, ma sembra davvero di aver fatto un salto indietro dei soliti trent’anni).
Strange Life e Roads proseguono sul filone delle ballate acustiche e My Midlife Crisis è una confessione introspettiva sui dubbi e le paure che, prima o poi, attanagliano chi varca un indefinito confine fra la giovinezza e la maturità. Grande disco. Welcome back Severin.

Gene Parsons & Meridian GreenLive From Caspar (Stringbender Rec. SBR-003)
Il nome di Gene Parsons non dovrebbe suonare sconosciuto a quanti hanno superato i fatidici ‘anta, in quanto Gene ha legato il suo nome a formazioni storiche del country-rock californiano quali Byrds e Flying Burrito Brothers, ha portato avanti una carriera solista con tre dischi, più due (questo Live From Caspar è il secondo) incisi con la moglie Meridian Green (figlia del grande folksinger Bob Gibson), il tutto senza mai trascurare il suo ruolo di richiestissimo session-man.
Oggi Gene si esibisce ancora in piccoli clubs e si dedica a versioni folk-oriented di brani suoi e di altri che hanno segnato la strada di diverse generazioni. Classici quali Sin City (Flying Burrito Brothers), California Blues (Jimmie Rodgers), Drunkard’s Dream (Stanley Carter) o Looking For Trouble (Steve Goodman) risorgono a nuova vita grazie alla perizia strumentale di Gene ed al magico intreccio delle voci della coppia.
I brani originali sono altrettanto apprezzabili: l’iniziale Coast Hotel emana tanta freschezza quanta se ne può apprezzare sulla costa del Pacifico in una mattinata autunnale, Just Away è intrisa di malinconia composta e dignitosa, Cowboy Girl è spumeggiante di banjo e chitarra acustica, in perfetta armonia western, Chief Seattle passa abbastanza velocemente e poco aggiunge a quanto detto fino ad ora, mentre Sweet Desert Childhood ci riporta ancora ai tempi dei Flying Burrito Brothers.
Lo strumentale Banjo Dog e la già citata Drunkard’s Dream si rifanno allo stupendo esordio solista di Gene, quel Kindling che vide la luce i soliti trent’anni – quasi – fa (1974), mentre Life Carries On ha il sapore dei brani più tradizionali.
C’è ancora di più in questo piccolo oggetto che si chiama CD: scopritelo da soli e non resterete delusi.

Chris RichardsJam The Breeze (Ten High Ranch Records)
Se è vero – come è vero – che l’ascolto dei vecchi leoni del country californiano ed ancor più precisamente del cosiddetto Bakersfield Sound ha permesso di riscoprire i vari Buck Owens, Red Simpson, Wynn Stewart, per non parlare dell’imprescindibile Merle Haggard ed ha creato i presupposti per uno stuoli di new traditionalists (un nome su tutti: Dwight Yoakam), è altrettanto vero che la vena country-oriented della California pare goda di ottima salute e questo esordiente di nome Chris Richards ne è un fulgido esempio.
Richards è un country singer-songwriter, equamente diviso fra le influenze tipicamente cantautorali e le sonorità più decisamente country. Fra le sue proposte si alternano episodi smaccatamente country quali il title-track (con tanto di baritone guitar) ad altri più rurali e bucolici, meditativi ed introspettivi (si vedano le varie ballate acustiche fra le quali spicca la deliziosa Why Arizona).
Prodotto da Rick Shea (tre albums solisti al suo attivo ed una lunga e blasonata carriera di session man alla corte di Dave Alvin & Soci), il disco vanta un cast stellare e questo è tanto più vero quanto si deve considerare il fatto che Chris Richards è un esordiente e la Ten High Ranch Records è una indie davvero minuscola.

Chris si esibisce alla voce ed alla chitarra acustica, Rick Shea suona una varietà di chitarre ed il mandolino, David Jackson (session-men di lusso fin dai primi anni ’70 californiani ed ora con il trio western Real West) al basso elettrico ed acustico, organo, piano ed accordion, Don Heffington alla batteria, Wyman Reese (si vedano le credenziali di Shea) all’organo, mentre Clare Muldaur e Paul De Grè contribuiscono a livello vocale.
Il disco non è lunghissimo (non arriva ai trentacinque minuti), ma è pervaso da quella rilassata pacatezza che si trovava in alcuni gioiellini del country-rock di trent’anni fa (Rick Roberts è il primo nome che mi viene in mente). Ascoltate l’intro di pedal steel guitar (Rick Shea) di She Once Lived Here (l’unico brano non originale a firma di Autry Inman) e provate a negare di trovarvi di fronte l’immagine di Gram Parsons ai tempi dei Flying Burrito Brothers.
Dieci brani, dieci piccoli/grandi capolavori a firma di un esordiente. Dio benedica le indies e chi ancora crede in se stesso e nella buona musica.

Dino Della Casa, fonte Country Store n. 67, 2003

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