Beppe Gambetta

Sin dalla nascita di Chitarre Beppe Gambetta si è fatto conoscere dai nostri lettori per la sua rubrica di chitarra flatpicking: ma questo non è il solo motivo per cui gli abbiamo dedicato questa ampia intervista. Il fatto è che da qualche anno, da solo ed insieme ai Red Wine, band genovese di bluegrass da lui fondata assieme al banjoista Silvio Ferretti – con Martino Coppo al mandolino e Marco Curreri al basso – il nostro Beppe si è conquistato, anche al di là delle nostre frontiere, un sempre più vasto apprezzamento.
Questo grazie ad una intensa attività concertistica e ad un appassionato lavoro didattico (due manuali di chitarra, lezioni, seminari…) oltre alla pubblicazione di una cassetta autoprodotta e del disco Dialogs, anch’esso prodotto in proprio. Ci è sembrato perciò giusto premiare il suo lavoro e soddisfare la curiosità dei nostri lettori con queste pagine di intervista.

LG – La diffusione della chitarra acustica sembra essere oggi legata soprattutto alle tecniche fingerpicking. Il nome di Beppe Gambetta è invece sinonimo di flatpicking: com’è che ti sei orientato sullo stile a plettro?
BG – C’è da premettere innanzitutto che mi sono dedicato allo studio di entrambe le tecniche e nei miei spettacoli da solista le alterno, anche per dare un po’ di varietà al repertorio. Per rispondere alla tua domanda, ciò che mi piace nell’uso della chitarra a plettro è che mette lo strumento in grado di essere suonato insieme ad altri in maniera più efficace di quanto non consenta il finger-picking. A volte mi capita che dei chitarristi folk mi chiedano: “Imparare a suonare a plettro non rischia di pregiudicare o rovinare lo stile fingerpicking che uno si è costruito negli anni”? La risposta è assolutamente negativa.
Studiare parallelamente entrambi gli stili può dare molte gioie e soddisfazioni, oltre ad una comprensione più allargata dello strumento: con il fingerpicking si esplorano le possibilità armoniche ‘cordali’ della chitarra, mentre il flatpicking, con il suo ampio uso di scale, porta più naturalmente all’improvvisazione ed è preferibile per suonare insieme ad altri. Come dicevo, è stato proprio questo a spingermi in direzione del plettro: più di undici anni fa abbiamo fondato il gruppo bluegrass Red Wine e da allora è sempre stato un continuo approfondimento della tecnica e delle possibilità espressive della chitarra in un contesto di insieme; per sintetizzare, se agli inizi suonare era un attendere spasmodico il momento dell’assolo di chitarra, ora invece mi concentro maggiormente su tutto il lavoro chitarristico anche di accompagnamento degli altri strumenti, cercando di dare il massimo di significato, ed espressione ad ogni nota e ad ogni accordo, così che al momento del solo non c’è più alcuna traccia di tensione e tutto avviene con più naturalezza e relax.

LG – Vale forse la pena di spendere ancora qualche parola su questi due diversi approcci alla chitarra. È vero che il fingerpicking è associato alla musica di esecutori soli, vedi i primi bluesmen, mentre il plettro ha avuto storia fondamentalmente all’interno delle string-band fino all’attuale bluegrass: però non mancano le eccezioni o addirittura casi di chitarristi come Doc Watson che anche quando si esibiscono da soli alternano brani nei due stili. Forse una delle più sostanziali differenze è che il plettro consente una maggior escursione dinamica alla chitarra ed è proprio questo fatto che rende il flatpicking la scelta più logica quando si suona con altri strumenti, per la possibilità di accompagnare a livelli sonori non invadenti conservando una riserva di potenza da esprimere negli assoli. Sei d’accordo?
BG – Direi di sì. Uno dei principali problemi del flatpicker è proprio quello di farsi sentire in un contesto orchestrale dove ci sono strumenti sonori e penetranti come banjo e violino, e tutta la tecnica ruota attorno a questo: spremere quando necessario tutto il volume che la chitarra può dare. È certo che se mettiamo a suonare in una stanza Tony Rice e Pierre Bensusan ci accorgeremo subito di un enorme divario fra il volume dei loro due strumenti.
Comunque sarebbe un errore credere che tutta la ricerca tecnica del flatpicking si esaurisca nel controllo della dinamica e nella conquista del volume: l’uso di corde spesse e di plettri rigidi nel flatpicking influenza anche la timbrica dello strumento, e quindi la ricerca di un timbro personale e gradevole rappresenta un altro aspetto dello stile sul quale il chitarrista deve ottenere totale padronanza e controllo.
Per quanto riguarda la prima parte della tua domanda, è vero quel che dici, che a volte Doc Watson suona fingerpicking anche in un contesto d’insieme e d’altra parte i chitarristi come Dan Crary e Norman Blake usano il plettro anche in esibizioni solistiche. E’ appunto un esempio di come la padronanza sia dell’aspetto dinamico che di quello timbrico possano conferire anche ad una sola chitarra con una sola fonte sonora (il plettro) una sonorità ricca e armoniosa. Del resto va ricordato come anche il fingerpicking divenga un ingrediente tipico del bluegrass quando una band esegue dei ‘gospel’ dove a sostenere le quattro voci sono soprattutto la chitarra – fingerpicking, appunto – e il contrabbasso.

LG – Questo tipo di fingerpicking applicato al bluesgrass è eseguito rigorosamente con le dita o a volte si adottano anche tecniche miste plettro-dita?
BG – Dipende dal singolo chitarrista o anche dalla sua scelta di sonorità per il singolo brano. Pat Flynn ad esempio (il chitarrista dei Newgrass Revival) usa molto spesso queste tecniche miste con plettro e dita contemporaneamente, mentre Carl Jackson, che ha accompagnato un meraviglioso album di gospel di Emmylou Harris, usa tradizionalmente le dita. Non mancano poi altri chitarristi che usano stili fingerpicking molto personali, spesso presi in prestito dai ‘rolls’ di banjo in un contesto country o bluegrass, come Jerry Reed, Larry McNeely o Ricky Skaggs…
LG – Certamente questa maggiore flessibilità nell’uso o meno del plettro indipendentemente dal contesto musicale è dovuta ai progressi nel campo dei microfoni e trasduttori ed in generale nell’amplificazione della chitarra. Non credi?
BG – Certo. Si può ascoltare un bell’esempio di quello a cui ti riferisci nella versione dal vivo di Country Boy di Ricky Skaggs, dove lui suona fingerpicking addirittura coi polpastrelli ottenendo, grazie alla perfetta amplificazione, il giusto risalto su una band di stampo country-rock con tanto di basso, batteria, pedal-steel, etc. La tecnologia ha certamente giocato un ruolo fondamentale nello svincolare i chitarristi dalla rigidità stilistica di un tempo.

LG – Eppure l’uso di un trasduttore per amplificare la chitarra, se da un lato risolve molti problemi e apre nuove possibilità, dall’altro può anche diventare fonte di nuovi assilli per il chitarrista. Se la resa timbrica di molti trasduttori in commercio è ormai soddisfacente, si è tuttavia di fronte ad una diversa situazione sonora fra lo strumento puramente acustico, suonato in casa, e lo stesso strumento amplificato in una situazione di palco; il problema diventa allora: come ottenere il medesimo impatto, la medesima resa, sullo strumento amplificato?
BG – In altri termini, si deve cercare di riprodurre dal vivo la stessa resa sonora dello strumento acustico suonato in casa. In effetti la gran maggioranza delle band bluegrass preferisce usare il microfono anziché il trasduttore proprio per le maggiori possibilità dinamiche che il microfono offre. Che io sappia, l’unico gruppo che sia riuscito a servirsi dei trasduttori senza perdere tutti quegli effetti dinamici caratteristici del bluegrass sono i Newgrass Revival grazie anche al loro tecnico, capacissimo e ben affiatato, ed all’uso contemporaneo anche dei microfoni che entrano in gioco per almeno un cinquanta per cento.
Diciamo che il trasduttore garantisce una presenza sonora costante, mentre il microfono porta il calore della musica acustica ed un aiuto alla dinamica. Nella Red Wine restiamo ancora attaccati alla tecnica tradizionale, all’uso del microfono, almeno finché la qualità dell’impianto e l’acustica dell’ambiente ce lo consentono. Un uso corretto del microfono influisce almeno del cinquanta per cento sul sound di una band bluegrass: spesso capita di ascoltare dei gruppi di giovani alle prime esperienze con chitarristi che, pur avendo raggiunta un’ottima padronanza tecnica dello strumento, tuttavia non riescono a rendere sufficientemente; e questo perché non sanno ancora bene come entrare ed uscire dal microfono con la dovuta efficacia e sicurezza.
Alla fine, questo impedisce di apprezzare la loro musica come sarebbe giusto. Insomma, il trucco è proprio quello di cercare quanto è possibile di riprodurre la dimensione acustica del suono di gruppo imparando ad ‘aiutare’ la chitarra con un uso accorto del microfono: del resto è quanto dice Charles Sawtelle, il chitarrista degli Hot Rize, che ha speso molto tempo nell’approfondire il problema dell’amplificazione della chitarra. Gli ingredienti del loro suono sono microfoni di altissima qualità, dei Newman da studio, un equalizzatore grafico fra il microfono della chitarra e il mixer, e soprattutto un bravissimo tecnico. Con tutto ciò, succede a volte che malgrado lunghi ed accurati sound check, l’acustica dell’ambiente continui a creare dei problemi soprattutto di feedback: in quel caso si ricorre ad un uso parziale del trasduttore in modo da poter abbassare di livello il segnale microfonico eliminando i problemi di innesco. Inoltre la dinamica del pick-up viene aiutata in questi casi da un pedale: il risultato è un pochino più freddo e meccanico di quanto avverrebbe con il solo microfono, ma, come ho detto, siamo di fronte ad un ripiego. Io stesso mi porto dietro sempre tutta l’attrezzatura del trasduttore proprio per far fronte a simili emergenze, emergenze che si verificano in media ogni sei sette concerti con la Red Wine.

LG – A che sono dovute in genere queste emergenze?
BG – Per lo più a risonanze del palco o dell’ambiente, alle misure stesse del palco, alla qualità dell’impianto di amplificazione.
LG – Come ti regoli invece nei tuoi concerti come solista?
BG – Quando suono da solo, è richiesta una presenza costante e sicura della chitarra, e quindi mi attengo sempre alla miscela di microfono e trasduttore.
LG – Forse è arrivato il momento di parlare un po’ più direttamente di Beppe Gambetta. Prima di fondare i Red Wine insieme a Silvio Ferretti, e quindi prima del colpo di fulmine per la musica folk e bluegrass, quali erano i tuoi gusti musicali?
BG – Mi piaceva già molto la chitarra acustica, anche se inserita in un contesto rock. Ad esempio mi piacevano molto alcuni brani acustici dei Led Zeppelin e dei Jethro Tull… e poi, ovviamente, Simon & Garfunkel, Neil Young e via dicendo.
LG – E come avvenne l’incontro con la musica folk?
BG – Fu più o meno contemporaneo all’incontro con Silvio Ferretti, col quale ci trovammo subito d’accordo come gusti musicali: fummo entrambi travolti dalla passione per un disco che lo zio gli aveva mandato dall’America, un album della serie ‘Newport Folk Festival’, ed in particolare da un brano di Lester Flatt & Earl Scruggs, Salty Dog… Lì ascoltammo anche per la prima volta Doc Watson, insomma fu una rivelazione. Cominciò così, ed andammo avanti insieme a studiare e ad approfondire via via con l’ascolto dei dischi e la pratica degli strumenti. Poi fondammo la Red Wine, che all’inizio era una numerosissima string band che raccoglieva tutti gli appassionati di quel genere di musica che riuscivamo a trovare: ben nove elementi più un coretto femminile. La band si assottigliò poi via via e si concentrò sempre di più sul bluegrass.

LG – Perché proprio sul bluegrass e non sull’old-time?
BG – È stata una specie di evoluzione naturale: non dimentichiamo che agli inizi il nostro repertorio spaziava dall’old-time a tutto il folk in generale, compresi brani irlandesi e scozzesi… In seguito siamo stati sempre più coinvolti dal bluegrass. Per quanto mi riguarda sono stato particolarmente affascinato dalla incredibile solidità ritmica di questa musica, solidità ritmica che viene creata dai soli strumenti a corde acustici e quindi senza percussioni né batteria. Può anche darsi che in futuro ci butteremo sul country rock… Old-time, bluegrass, country rock, sono tutti anelli di un’unica catena, sono le fasi storiche in cui si è evoluta tutta la musica americana di derivazione popolare.
LG – Una domanda un po’… scabrosa : la country music e il bluegrass hanno contenuti musicali degni di rispetto, non sono privi di una loro spettacolarità, hanno il loro posto nel mercato americano ed internazionale. Qui in Italia invece il loro successo non è andato oltre una cerchia di poche migliaia di appassionati e sono stati un po’ snobbati e forse fraintesi da addetti ai lavori e grosso pubblico: da un lato questi generi musicali sono stati troppo facilmente associati ad un mondo di maniera, un po’ infantile, fatto di mandrie, cowboys e falò nella prateria; dall’altro sono stati tacciati di rappresentare ed esprimere la parte più reazionaria o addirittura razzista degli Stati Uniti. Tu che sei stato più volte in loco, a contatto con questa musica nella sua terra di origine, cosa puoi dirci al riguardo ?
BG – È senz’altro vero che qui da noi l’immagine della musica bluegrass ha sofferto di questo tipo di equivoco. Così, a caldo, mi sembra come prima cosa molto ingiusto che certe perplessità nascano nei confronti di un certo genere musicale in un paese dove milioni di persone bevono Coca-Cola, vestono in jeans, non si perdono una puntata di Dallas, vanno a vedere Rambo al cinema, impazziscono per Eather Parisi: fra tutti questi aspetti dell’America non mi sembra che debba essere il bluegrass la cosa peggiore. Può darsi che certi personaggi del bluegrass delle origini, o i più anziani, o quelli che vivono nelle zone più sperdute e depresse, non siano dei campioni di apertura mentale né possano definirsi dei ‘liberal’, tuttavia bisogna sempre diffidare di certe frettolose identificazioni, altrimenti si potrebbe finire per dire che chi suona lo scacciapensieri è mafioso o chi tifa per la Lazio, ad esempio, è di destra.
Ma a parte tutto questo, come mia personale esperienza ho avuto il piacere di conoscere personalmente un gran numero di musicisti bluegrass del giorno d’oggi e posso assicurare che nessuno di loro aveva i connotati del razzista o dell’americano gretto e provinciale: erano anzi in più di un caso pacifisti o comunque impegnati nei problemi ambientali e sociali. E non c’è da stupirsene perché molti di loro si sono accostati al bluegrass sull’onda del folk-revival degli anni ’60 che videro il successo di artisti come Woody Guthrie, Pete Seeger, Joan Baez, Phil Ochs e altri che erano tutt’altro che reazionari. È chiaro comunque che tutto il discorso meriterebbe un dibattito più approfondito.

LG – Parliamo un po’ del tuo viaggio in USA, quello che è servito da stimolo e da preparazione alla realizzazione del tuo album Dialogs: quali sono state le tue impressioni, come ti sei trovato con i musicisti che hai incontrato?
BG – È stata ovviamente, un’esperienza emozionante: era magnifico trovarmi a contatto diretto con la musica che amo e con i suoi migliori interpreti dopo anni passati a sognare sulle copertine dei dischi. Alcuni di questi musicisti, come Mike Marshall e John Jorgenson (chitarrista della Desert Rose Band), li conoscevo già per averli incontrati in occasione dei loro concerti europei; per altri mi ero fatto precedere da una copia del mio Manuale Di Chitarra Flatpicking come biglietto da visita e, con gran faccia tosta, sono andato a trovarli. Io chiedevo loro lezioni di chitarra e sono stato stupefatto che loro rifiutassero e piuttosto apprezzassero la mia musica al punto di preferire suonare insieme a me.
LG – Fu allora che ti venne l’idea di realizzare il tuo album di duetti chitarristici?
BG – In un certo senso sì: anzi, fu proprio Joe Carr dei Country Gazette a suggerirmi di tornare per registrare delle cose in America.
LG – Alla luce della tua esperienza americana, come ti valuti rispetto al chitarrista medio?
BG – Molto al di sotto, sono troppo bravi!
LG – Troppo modesto! Ma io non mi riferivo ai chitarristi leggendari che hai incontrato, bensì al dilettante evoluto, al chitarrista medio che frequenta i festival e i contest di bluegrass.
BG – Beh, in quel caso devo dire che sono stato molto apprezzato. Mi è capitato di partecipare a jam session di chitarristi nell’ambito di alcuni festival all’aperto ed ho avuto moltissimo successo, almeno a giudicare dalla quantità di birre e hamburger che mi venivano offerti! Erano senz’altro anche stupiti ed un po’ inorgogliti del fatto che un italiano suonasse così bene la loro musica.

LG – L’aver incontrato alcuni tra i migliori chitarristi americani ti ha consentito senzaltro di approfondire le sottigliezze dello stile. Se dovessi condensare quello che hai appreso in una ‘massima’ da trasmettere ai lettori di Chitarre, quali consigli daresti?
BG – Più che della ricchezza e della complessità dei fraseggi – cose che si raggiungono con lo studio delle scale e delle tecniche improvvisative – sono stato colpito, osservando i big suonare da vicino, dalla loro consistenza ritmica e dal tocco della mano destra: ci sono una quantità di modi di usare il plettro, di attaccare la corda, che sono i veri segreti della sonorità e del timbro di questi grandi flatpicker e mi è stato prezioso poterli osservare così direttamente. Per cui il consiglio che posso dare a chi vuol fare un vero salto di qualità nella chitarra bluesgrass è di concentrarsi al massimo sul ritmo, studiando anche col metronomo, e di curare molto l’uso della mano destra.
LG – Dopo questo primo viaggio è nata l’idea di realizzare il tuo disco Dialogs. Registrare dodici brani con altrettanti chitarristi e in dodici luoghi diversi può portare notevoli difficoltà tecnico-organizzative che tu hai saputo abilmente aggirare. Vuoi dirci come?
BG – Come ho detto l’idea aveva preso corpo dal suggerimento di Joe Carr. Dopo averci rimuginato un po’ ho capito che in effetti non era cosa semplice né economicamente realizzabile usare una quantità di studi diversi: ho quindi pensato di usare un registratore portatile, ma in questo caso la qualità sarebbe stata sacrificata visto che non potevo andare in giro con attrezzature troppo ingombranti. Mi è venuto in soccorso Rob Griffin, produttore e tecnico del suono famoso ed apprezzato nel giro della musica acustica americana, che mi ha noleggiato un registratore digitale Sony DAT CES. Come microfoni ho usato degli AKG 460 con capsula CK-61; inoltre ogni microfono passava attraverso un pre della Studio Technologies. Questo in pratica costituiva il mio studio ‘on the road’. Infine abbiamo mixato le registrazioni in studio e devo dire che il risultato è stato pienamente soddisfacente: credo di essere stato il primo a realizzare un disco così, e anche in America molti erano sorpresi della mia attrezzatura perché lì il DAT, come credo anche da noi, non può essere venduto a privati ma solo a studi di registrazione e quindi parecchi lo vedevano per la prima volta.

LG – Questo per quanto concerne il lato tecnico della cosa. Dal lato umano come è andata la tua collaborazione con tutti questi musicisti? Li conoscevi già tutti, avevi già preso accordi con loro?
BG – Una buona metà li avevo già incontrati nel mio viaggio precedente e agli altri sono stato presentato via via. Tutti hanno capito dopo un colloquio preliminare lo spirito del mio progetto ed hanno acconsentito mostrando grande disponibilità e simpatia personale e chitarristica; alcuni, come John Jorgenson, hanno addirittura composto un pezzo espressamente per il mio album.
LG – Com’è avvenuta, in generale, la scelta dei pezzi da incidere?
BG – Tranne che nel caso di Joe Carr, al quale avevo già spedito una cassetta con Model 400 Buckboard, il brano che avremmo eseguito, di solito cominciavamo a suonare insieme due o tre pezzi che proponevamo l’un l’altro e poi sceglievamo quello che ci sembrava venisse meglio. Devo poi dire che alcuni mi hanno sorpreso per la loro precisione ed infallibilità, come John Jorgenson, il banjoista Alan Munde, Mike Marshall… delle vere macchine, mai un errore o un’incertezza, tutti i pezzi buoni alla prima. Altri invece erano più… umani e qualche volta dovevamo rifare il brano; mai comunque ci abbiamo messo più di un paio d’ore e tutto è stato registrato in diretta, con un solo taglio di nastro su All You Need Is Love con Mike Marshall, dove la parte iniziale è stata montata.
LG – Oltre ad aver realizzalo il primo disco digitale ‘on the road’, credo che tu abbia segnato un altro record: quanto è costato, tutto incluso, il tuo Dialogs?
BG – Quindici milioni. È un bel po’, ma non abbiamo voluto economizzare anche sul progetto grafico realizzato con gran cura e sensibilità da un mio amico pittore, Sergio Bianco.
LG – La tua è un’affermazione veramente… genovese! A me sembra che quindici milioni siano una cifra irrisoria per qualsiasi disco, ma ancora di più se si è realizzato in America. Piuttosto, noto che sei passato ad usare il plurale: ti riferisci a qualcuno che ti ha aiutato a produrre il disco?
BG – Sì, in effetti pensavo alla Skip Agency, che è un’agenzia di manageriato che si occupa di quest’aspetto della mia attività.

LG – Il disco porta l’etichetta Hi Folks! Records. Che parte hanno avuto l’etichetta e la rivista nella realizzazione dell’album
BG – Mi hanno appunto concesso di usare il loro marchio oltre a darmi un aiuto promozionale tramite la rivista.
LG – A meno di un anno dalla sua uscita quante copie hai venduto?
BG – Circa un migliaio: non poche, per un disco di chitarre acustiche. Abbiamo ritenuto il dato abbastanza confortante, tanto che stiamo per fare uscire la cassetta con allegato un libricino che contiene tutte le abbondanti note di copertina.
LG – A parte i dati di vendita, come è stato accolto questo tuo lavoro dalla stampa?
BG – Ha avuto ovunque delle recensioni estremamente favorevoli e, devo dire con piacere, non solo dalla stampa specializzata ma anche da testate più commerciali come Ciao 2001 e MusicTutto bene, insomma: unico cruccio la distribuzione che è per forza di cose limitata ed artigianale.
LG – Oltre a farti i nostri migliori auguri per il tuo lavoro, vorremmo concludere chiedendoti qualcosa sui tuoi programmi futuri.
BG – Sono in procinto di partire per un altro viaggio in USA, stavolta per suonare dal vivo – ho già fissate una dozzina di date – e per promuovere il mio disco, oltre a realizzare un altro progetto su cui taccio per scaramanzia (al momento della pubblicazione sappiamo che il progetto di Beppe è andato in porto: ha infatti firmato un contratto con la prestigiosa etichetta americana Kickin’ Mule, grazie alla quale Dialogs sarà pubblicato e distribuito in USA e a livello internazionale, ndr). Seguirà un’altra breve tournée in Germania. Inoltre insieme ai Red Wine stiamo per incidere il nostro primo disco come band che vedrà la luce in autunno. Infine ho già le idee ben chiare sul mio prossimo album da solista, ma anche su questo taccio… per scaramanzia!

Luigi Grechi, fonte Chitarre n. 47, 1990

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