Chuck Berry

Ad un anno dalla sua scomparsa lo ricordiamo parlando con il figlio Charles.
Dal 1955, da quando rivoluzionò la musica con le sue invenzioni poetiche e la sua Gibson semiacustica, sembrava impossibile immaginare un mondo senza Chuck Berry. Oggi, a un anno dalla sua morte, siamo rassicurati dal fatto che il rocker di Saint Louis ci ha lasciato in eredità la gioiosa vitalità delle sue canzoni che, come le più grandi forme d’arte, rendono immortale anche chi ha dato loro vita. Finché qualcuno prenderà in mano una chitarra per suonare Johnny B. Goode, come aveva fatto Marty McFly in Ritorno Al Futuro, Chuck Berry non lascerà questo mondo.
Abbiamo fatto una chiacchierata con il più giovane dei suoi figli, Charles Berry Jr, classe 1961, che quindici anni fa, dopo aver lavorato molti anni nel campo dell’informatica, accetta l’inaspettata proposta di suo padre di accompagnarlo in tour, fino a ritrovarsi a suonare nel suo ultimo disco prima dell’inevitabile addio.

Un anno senza Chuck Berry. Il mondo ha perso una leggenda vivente ma tu hai perso tuo padre. I molti tributi e riconoscimenti hanno forse in parte alleviato questo grande dolore.
Il 18 marzo sarà un giorno molto difficile per tutta la nostra famiglia. Lo amavamo molto e non c’è stato neppure un giorno dalla sua morte in cui io non abbia pensato a lui. Ma l’amore che proviamo per lui ci ha aiutato. I riconoscimenti fanno senz’altro piacere ma è sempre l’amore la cosa più significativa.

Tra tutte le manifestazioni d’affetto ricevute quali sono state quelle più toccanti?
Quelle dei membri della sua band. Jimmy Marsala, Keith Robinson, Daryl Davis e Billy Peek ci sono stati molto vicini. Oltre a Joe Edwards, proprietario del Blueberry Hill (il locale in cui Chuck si è esibito oltre 200 volte) e suo grande amico.

Lavorare al suo ultimo disco deve essere stata una sfida. C’era forse qualche canzone che tuo padre amava in particolare?
Le amava tutte! Questo disco raccoglie materiale inciso nell’arco di 37 anni. Mi è capitato di ascoltare qualcosa già all’inizio degli anni ’80! Le ultime session sono servite ad aggiungere le parti degli ospiti: mio figlio Charles Berry III, Gary Clark Jr, Tom Morello e Nathaniel Rateliff. Mio padre desiderava che il mondo sapesse che aveva ancora qualcosa da dire. Alla sua morte la data d’uscita dell’album (il primo aprile 2017 n.d.r.) era già stata stabilita. Eravamo distrutti ma mia madre sapeva esattamente che cosa lui avrebbe voluto e così ha fatto in modo che tutto procedesse come previsto. La parte più difficile per me è stata la promozione. Mi sono trovato a viaggiare anche in Europa per rilasciare interviste ed è stata una sensazione strana sentire che tutti volevano sapere ogni particolare del nuovo disco ma che a nessuno importasse di sapere qualcosa di me.

Chi ha scelto gli ospiti del disco?
Principalmente la Dualtone Records. Mio padre all’inizio era riluttante all’idea di avere degli ospiti perché temeva che ciò potesse distrarre dalla sua musica. Desiderava solo mio figlio Charles, che negli anni ha partecipato a diversi nostri concerti, e naturalmente mia sorella Ingrid, che ha suonato con lui in diversi dischi e concerti nell’arco degli ultimi quarant’anni.

Ci sono tre generazioni di Berry in questo disco. Devi essere stato molto fiero della presenza di tuo figlio….
Sì, è stata una grande soddisfazione. Charlie è molto appassionato e suona con diverse band a Saint Louis. Quando eravamo a Nashville per registrare le parti di Lady Be Good e Wonderful Woman si divertiva ad andare in giro per i locali a partecipare a qualche jam. Mio padre era così fiero quando io e mia sorella salivamo sul palco con lui. Sono stati di gran lunga alcuni dei momenti più belli della mia vita.

Com’è stato essere in tour con Chuck Berry? .
Il mio primo show fuori dagli USA è stato proprio in Italia, nel 2005, al teatro Smeraldo di Milano. Non conoscendo la vostra lingua rimasi davvero colpito dal fatto che il pubblico cantasse le sue canzoni a memoria. Poi ci sono stati oltre 500 concerti girando quasi tutti gli Stati Uniti e buona parte di Europa e Sud America: un’esperienza meravigliosa.

Sono state incise migliaia di cover dei brani di Chuck Berry. Che tu sappia ce n’era qualcuna che lui amava particolarmente?
Non saprei. Posso dirti però che c’era una cover che lui eseguiva spesso e adorava: si tratta di Love in 3/4 Time (brano di Tony Joe White, n.d.r.) che ha addirittura voluto includere nel suo ultimo disco ribattezzandola Enchiladas. Mio padre adorava Ray Charles e non perdeva occasione per suonare o ascoltare le sue canzoni.

Tra gli altri pionieri del rock and roll ce n’era qualcuno con cui andava particolarmente d’accordo?
Little Richard e Bo Diddley. Uncle Bo, così lo chiamavamo in famiglia, ha fatto diversi show con mio padre ed erano sempre dei momenti esaltanti in cui la chitarra era protagonista: giocavano a sfidarsi e il pubblico li adorava. A pensarci bene andava d’accordo anche con Jerry Lee Lewis, con cui aveva fatto molti tour insieme.

Tuo padre amava molto esibirsi al Blueberry Hill, nella sua città.
Erano i suoi show preferiti in assoluto. Lo riportavano indietro ai suoi inizi al Cosmopolitan Cub di East Saint Louis. Amava molto avere un contatto diretto con il pubblico, guardare le persone negli occhi e interagire con loro. Comunque non disdegnava di esibirsi in posti più grandi: è sempre divertente avere davanti a te 50 mila spettatori e poter alzare al massimo il volume del tuo amplificatore!

Quest’anno alla cerimonia dei Grammy hanno dedicato un tributo, forse un po’ troppo breve, a Chuck Berry e Fats Domino. Che ne pensi?
Beh naturalmente mi sarebbe piaciuto se avessero dedicato un’intera serata a loro ma non sarebbero realistico. La musica si è molto evoluta dai tempi di Maybellene. Il fatto che Gary Clark Jr. e John Baptiste abbiano suonato la sua canzone ha raggiunto l’obiettivo che sta a cuore a tutta la mia famiglia: fare in modo che la sua opera non sia dimenticata. Io e mia moglie Cheryl ricorderemo per sempre con gratitudine questo tributo che sicuramente ha permesso a molti giovani di entrare in contatto per la prima volta con la sua musica. La loro curiosità forse li porterà a cercare e ascoltare qualcuna tra le rimanenti 290 canzoni.

Si parla di un documentario e di un nuovo film dedicati alla vita di tuo padre. Potresti dirci qualcosa in merito?
La lavorazione è già iniziata e se ne sta occupando quel genio di John Brennan, lo stesso che ha realizzato i documentari dedicati a B.B. King e Nat King Cole. Su tutto c’è la supervisione di mia madre che avrà l’ultima parola sul prodotto finale. Lei è ormai il “Capo dei Capi” (in italiano, n.d.r.) e sta facendo un ottimo lavoro.

Chuck Berry ed Elvis Presley sono le figure chiave dell’interazione tra elementi bianchi e neri nella nascita del rock and roll. Avete una grande eredità artistica da conservare, condividere e proteggere. C’è forse l’idea di creare a Saint Louis qualcosa di simile a Graceland?
Ancora è presto per pensare a qualcosa del genere. Molti artisti, negli USA e in Europa, hanno già iniziato a suonare e registrare alcune canzoni del suo ultimo album. Per me questo è il modo migliore per celebrare Chuck Berry.

Discografia selezionata:
Rock & Roll Music – Any Old Way You Choose It – The Complete Studio Recordings Plus…! (Bear Records, 2014)
I box della Bear Records sono sempre dei capolavori e questo non fa eccezione. 16 CD magnificamente rimasterizzati che raccolgono praticamente tutto ciò che Chuck ha inciso tranne l’ultimo album, uscito tre anni dopo. Due splendidi libri con foto inedite e una miniera d’informazioni. Sono incluse anche le incisioni effettuate per la Mercury alla fine degli anni ’60 e diversi inediti, sia dal vivo che in studio. Acquisto impegnativo ma irrinunciabile per i veri appassionati della sua opera.

After School Session (Chess, 1957)
Il primo album oggi stupisce ancora per quanto precorresse i tempi: i testi di Too Much Monkey Business, sul cui modello Dylan vi costruirà Subterranean Homesick Blues, e Brown Eyed Handsome Man, la prima canzone a rivendicare l’orgoglio nero. Il botta e risposta tra voce e chitarra in School Day e l’ipnotica Havana Moon, che ispirerà anche Louie Louie. E tra le bonus track non potevano mancare Maybellene, Thirty Days e la You Can’t Catch Me, un brano rivelatorio su quanto Mick Jagger abbia assorbito lo stile vocale di Berry.

Saint Louis To Liverpool (Chess, 1964)
In piena British Invasion, mentre impazzano Beatles e Rolling Stones, che avevano preso a piene mani dal suo stile e dal suo repertorio, Berry riconquista un posto sotto i riflettori dopo le disavventure giudiziarie che lo avevano tenuto lontano dalle scene. Nuovi capolavori come No Particular Place To Go e Promised Land andranno ad aggiungersi alla lista dei suoi classici, mentre You Never Can Tell, trent’anni dopo, verrà resa immortale da Quentin Tarantino in un’indimenticabile scena di Pulp Fiction.

Hail! Hail! Rock And Roll (Geffen, 1986)
Il 1986 è un anno importante per Chuck Berry: è il primo artista ad essere ammesso nella Rock And Roll Hall Of Fame e, per celebrare i suoi 60 anni, viene organizzato un concerto in grande stile nella sua città natale. Accompagnato da una super band guidata da Keith Richards, e con ospiti del calibro di Eric Clapton, Etta James e Linda Ronstadt, Chuck si lascia coccolare senza rinunciare a fare le sue proverbiali bizze. Il disco è piacevole ma è l’omonimo documentario, girato nell’occasione da Taylor Hackford, ad essere davvero irrinunciabile.

Chuck (Dualtone, 2017)
Sono passati 38 anni da Rock It (1979), l’ultimo disco con materiale originale, e sembra quasi che Chuck voglia uscire da questo mondo in grande stile, sempre a ritmo di rock and roll. Big Boys fila veloce e armoniosa come i suoi grandi classici e Lady B. Goode ci racconta che anche dietro ogni guitar hero c’è una grande donna. E se Darlin’ è il toccante commiato tra padre e figlia, Dutchman, che sembra uscita da un disco di Tom Waits, ci rivela che la sua vena creativa non lo aveva abbandonato.

A.A.V.V. – The Songs Of Chuck Berry (Ace, 2017)
Chuck Berry tra i grandi della prima generazione è stato senza alcun dubbio il più riproposto dai colleghi. La quantità di cover di sue canzoni è impressionante, immaginiamo quindi la difficoltà di chi ha curato la produzione nell’assemblare i pezzi di questa compilation pur non avendo accesso al catalogo di alcuni importanti nomi come Beatles e Rolling Stones. L’ottimo lavoro di Tony Rounce ci fa (ri)scoprire diverse belle cover, in particolare quelle realizzate da Helene Dixon, MC5, The Remains, John Prine, Pretty Things e John Hammond.

Maurizio Faulisi, Carmelo Genovese, fonte TLJ, 2018

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